L’Iper-Razionale. Quando la testa protegge il cuore

Oggi affrontiamo il terzo stile di adattamento. Dopo il compiacente e il controllante, oggi l’iper-razionale.  Clicca qui per leggere quanto già pubblicato. Se vivi accanto a un coniuge Iper-Razionale, probabilmente lo riconosci subito: è una persona lucida, riflessiva, capace di mantenere la calma quando le emozioni rischiano di travolgere tutto. Non alza la voce, non si lascia andare agli eccessi, non reagisce d’impulso. Di fronte a un problema, pensa. Analizza. Ordina. E spesso trova soluzioni.

Nell’Analisi Transazionale questo stile è chiamato Iper-Razionale. È uno degli adattamenti più silenziosi e meno appariscenti, ma anche tra i più fraintesi. Perché dall’esterno può sembrare distacco, mentre dentro è spesso protezione. L’Iper-Razionale non ha scelto la testa al posto del cuore per superiorità o freddezza: lo ha fatto perché, molto presto nella sua storia, ha imparato che sentire era rischioso.

Spesso è cresciuto con messaggi impliciti come: “Non provare troppo”, “Le emozioni creano problemi”, “Pensa, così sei al sicuro”. Da bambino ha scoperto che la mente poteva diventare un rifugio affidabile quando il mondo emotivo era confuso, intenso o doloroso. Così ha imparato a governare la realtà con il pensiero. È stata una strategia intelligente. Gli ha permesso di stare in piedi, di funzionare, di non andare in pezzi.

Nel matrimonio questo adattamento porta doni reali. Un partner Iper-Razionale è spesso una roccia nei momenti difficili. Quando tu sei travolto dalle emozioni, lui resta lucido. Quando il conflitto rischia di esplodere, lui lo raffredda. Porta ordine dove c’è caos, chiarezza dove c’è confusione. È affidabile, costante, coerente. E questo è un grande bene per la coppia.

La sua logica non è assenza di amore. È, al contrario, una forma di cura. È come se dicesse: “Fammi capire, fammi mettere in ordine, così posso proteggere ciò che conta”. Anche spiritualmente, questo stile custodisce una virtù preziosa: la prudenza, la capacità di discernere, di non farsi guidare solo dall’emotività del momento.

Il problema nasce quando la testa diventa l’unico linguaggio possibile. Perché l’amore non vive solo di comprensione, ma anche di condivisione emotiva. E qui emerge la fatica dell’Iper-Razionale. Le emozioni, soprattutto quelle dolorose, lo mettono in difficoltà. Gli sembrano confuse, sproporzionate, ingestibili. Così tende ad analizzarle invece di attraversarle. A spiegarle invece di sentirle. A parlarne come concetti più che come esperienze.

Tu, come coniuge, potresti sentirti solo davanti a questo muro silenzioso. Potresti pensare: “Non ti coinvolgi”, “Non mi senti davvero”, “Ti tieni sempre un passo indietro”. Ma la verità è più profonda e più tenera: l’Iper-Razionale sente molto, spesso più di quanto mostri. Solo che non ha imparato come stare dentro a ciò che sente senza paura.

Spiritualmente assomiglia a Nicodemo: cerca Dio con la mente, fa domande, ragiona, ma fatica ad abbandonarsi. Eppure l’amore — umano e divino — chiede anche fiducia, esposizione, rischio.

Se hai sposato una persona così, il tuo ruolo è delicato. Non sei chiamato a smontare la sua corazza, ma a renderla non più necessaria. Evita di forzarlo con frasi come “Devi sentire di più” o “Sei freddo”. Per lui sono accuse che lo spingono a chiudersi. Aiutalo invece a sentire che può fare piccoli passi emotivi senza essere travolto. Usa parole chiare, concrete. Dagli tempo. Non interpretare la sua calma come disinteresse: spesso è un modo per non perdersi. Valorizza ogni tentativo di apertura, anche minimo. Crea spazi di intimità tranquilli, non drammatici. L’eccesso emotivo lo manda in allarme.

L’Iper-Razionale cresce quando si sente accolto così com’è, mentre impara — lentamente — a scendere dalla testa al cuore. Il suo cammino non è diventare emotivo o impulsivo, ma integrare. Lasciare che il cuore parli senza essere subito corretto dalla mente. Imparare a nominare un’emozione senza spiegarla. A lasciarsi consolare. A pregare non solo pensando Dio, ma sentendosi tenuto da Lui.

È il cammino del Salmo 131: un’anima pacificata, non perché capisce tutto, ma perché si affida. Quando questo accade, l’amore dell’Iper-Razionale diventa una forza straordinaria: stabile, saggia, ma finalmente anche tenera. Non più una testa che protegge il cuore dalla vita, ma una testa che aiuta il cuore a respirare.

Antonio e Luisa

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Capaci per la Sua potenza

Dalla «Lettera a Diognèto» (Cap. 8, 5 – 9, 6; Funk 1, 325-327) […] Dopo aver tutto disposto dentro di sé assieme al Figlio, permise che noi fino al tempo anzidetto rimanessimo in balia d’istinti disordinati e fossimo trascinati fuori della retta via dai piaceri e dalle cupidigie, seguendo il nostro arbitrio. Certamente non si compiaceva dei nostri peccati, ma li sopportava; neppure poteva approvare quel tempo d’iniquità, ma preparava l’era attuale di giustizia, perché, riconoscendoci in quel tempo chiaramente indegni della vita a motivo delle nostre opere, ne diventassimo degni in forza della sua misericordia, e perché, dopo aver mostrato la nostra impossibilità di entrare con le nostre forze nel suo regno, ne diventassimo capaci per la sua potenza. […]

Nell’Ufficio di qualche giorno fa, ci è stato proposto uno stralcio di questa “Lettera a Diogneto”, dal quale noi abbiamo estrapolato solo qualche riga che ci aiuterà nella riflessione odierna.

Non è raro per noi incontrare coppie che ci confidano le proprie debolezze di singoli o di coppia, le proprie incapacità a far decollare il proprio matrimonio e, spesso, ci troviamo spiazzati al primo momento. Quando in una coppia sorgono problemi non bisogna aver paura di andare da qualcuno, poiché questo qualcuno esterno alla coppia è libero da coinvolgimenti affettivi, libero anche da dinamiche interne alla coppia che rendono il suo sguardo sulla situazione più lucido.

Dopo un primo momento spiazzante bisogna prendersi un poco di tempo per analizzare con calma varie questioni. Per gli sposi questo primo momento potrebbe sembrare come una montagna invalicabile, potrebbe spaventare un po’, ma la paura a volte tira brutti scherzi, perciò è necessario astenersi da giudizi affrettati e mettersi in una condizione di ascolto. Essa è una condizione che va oltre il mero udire, e richiede anche l’adesione del cuore.

Di solito noi non cominciamo mai col dispensare consigli e/o tattiche di comunicazione tra i due e/o strategie per far funzionare la coppia, la prima cosa che facciamo è quella di ricordare ai due proprio che sono in due, cioè che sono una coppia, che sono un sacramento vivente, che Dio li ha pensati insieme fin dall’eternità per essere il Suo amore incarnato maschile per lei e femminile per lui.

Cari sposi, il nostro impegno deve essere il massimo possibile, ma da soli non combineremmo niente (cfr. Gv 15.5 : “[…]senza di me non potete far nulla“), ci vuole la potenza salvifica di Dio Amore, la potenza del Santo Spirito che infonde nella nostra umanità maschile e femminile il Suo Amore, ci vuole la Redenzione operata dal Figlio che porta su di sè i nostri peccati e ci trasferisce nel Suo Regno: dopo aver mostrato la nostra impossibilità di entrare con le nostre forze nel suo regno, ne diventassimo capaci per la sua potenza.

Tutto questo non è indolore, però è possibile, con Lui l’impossibile diventa possibile, con la Sua potenza un marito burbero diventa una fonte di tenerezza, una sposa acida diventa amabile. Questi miracoli sono Grazie del Sacramento del Matrimonio che la Madonna non vede l’ora di spandere su noi sposi.

Coraggio! Manca poco al Natale.

Giorgio e Valentina

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Aspettare il Natale quando si è nel dolore

Concludiamo oggi, con questo articolo, la trilogia dedicata all’attesa del 25 dicembre. Lo abbiamo fatto prima con la riflessione “Aspettare il Natale con il coniuge“, poi con “Aspettare il Natale con i figli“. Oggi lo facciamo con la terza tappa: la più difficile ma quella da cui possono nascere i frutti più abbondanti e inaspettati.

Aspettare il Santo Natale quando si è nel dolore è forse una delle prove più grandi della fede. L’Avvento, che per molti è un tempo di gioia, di speranza e di preparativi festosi, per chi vive una sofferenza profonda può apparire come un tempo stonato, in cui le luci del mondo sembrano ferire più che consolare. La malattia, il lutto, la vedovanza, la perdita di un figlio, la precarietà del lavoro, la solitudine: tutte queste ferite rischiano di rendere difficile l’attesa del Natale. Ci si chiede come poter celebrare la nascita di Gesù quando dentro il cuore sembra esserci solo il buio.

Eppure, proprio in queste situazioni di dolore, il senso più vero del Natale si rivela in tutta la sua forza. Cristo non è venuto nel mondo per i sani, i forti o i felici, ma per i poveri, gli ultimi, i sofferenti, coloro che portano un peso che sembra insopportabile. Nasce in una grotta, non in un palazzo; viene alla luce in una famiglia semplice e perseguitata, non tra i privilegiati. L’Emmanuele, il Dio-con-noi, sceglie di condividere fino in fondo la fragilità umana: il freddo, la povertà, l’incomprensione, l’insicurezza. Attendere il Natale nel dolore significa allora ricordare che Dio non è lontano, ma entra proprio nelle nostre ferite, si siede accanto a noi, piange con noi, cammina con noi.

Il lutto o la mancanza di una persona cara rendono particolarmente difficile questo tempo. La sedia vuota a tavola, il silenzio che sostituisce la voce amata, il vuoto che nessun dono potrà colmare: tutto sembra gridare l’assenza. Ma il Natale, vissuto nella fede, annuncia che la morte non ha l’ultima parola. Il Bambino che nasce a Betlemme è lo stesso che, un giorno, morirà e risorgerà per aprire a tutti la vita eterna.

Attendere il Natale è un esercizio di speranza: credere che coloro che ci hanno preceduto non sono perduti, ma vivono già nella luce di Dio, e che la nostra attesa non sarà vana perché un giorno saremo nuovamente insieme. Anche la malattia o la disoccupazione portano con sé un senso di impotenza e di fallimento.

Si ha l’impressione che tutto il mondo festeggi, mentre dentro si è prigionieri della stanchezza o della preoccupazione. In queste situazioni, l’Avvento ci invita a un’attesa umile e vera: non aspettare che le cose si aggiustino per trovare pace, ma accogliere Cristo così come siamo, con le nostre ferite aperte. Dio non ci chiede di essere forti per incontrarci: viene come un Bambino proprio per mostrarci che la sua forza si manifesta nella debolezza. La grotta di Betlemme diventa allora immagine del cuore ferito: povero, spoglio, fragile ma pronto ad accogliere la Vita nuova.

In vedovanza o dopo la perdita di un figlio, il Natale può sembrare insopportabile, perché la gioia familiare appare irrimediabilmente spezzata. Eppure, proprio qui il mistero dell’Incarnazione assume la sua dimensione più consolante: Dio entra nel dramma dell’uomo, non lo osserva da lontano. Guardiamo a Maria stessa, la Madre, conoscerà la spada del dolore che le trapasserà l’anima. Guardiamo a Giuseppe, che porterà nel cuore la fatica di proteggere la sua famiglia nella precarietà. Non c’è lacrima che il Figlio di Dio non abbia in qualche modo condiviso. E la fede ci dice che, nella notte più buia, la luce di Cristo continua a brillare, anche se flebile, come una piccola fiamma che nessuno potrà spegnere.

Aspettare il Natale nel dolore significa allora vivere un’attesa che non è fatta di frenesia o di feste quanto piuttosto di silenzio, di preghiera, di affidamento. È imparare a sostare davanti al presepe con il cuore ferito e dire: Signore, non ho nulla da offrirti se non la mia sofferenza ma Tu sei venuto proprio per questo: per prendere su di Te il peso del mio dolore e trasformarlo in speranza. È riconoscere che la nascita di Gesù non elimina magicamente le nostre croci, piuttosto le illumina con la certezza che non siamo soli.

Il Santo Natale, anche nel dolore, non smette di essere promessa. È l’annuncio che Dio ha scelto di abitare la fragilità, che la notte non è eterna, che la luce vince sempre sulle tenebre. È l’invito ad attendere non con la gioia facile e rumorosa del mondo ma con la speranza silenziosa di chi sa che, anche nel pianto, Dio si fa vicino. Così, quando arriverà la notte santa, anche chi porta dentro una ferita potrà sussurrare con fede: «Ecco, il Signore è venuto non sono più solo».

Fabrizia Perrachon

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Il dolore e il perdono: un amore autentico in Osea

Accusate vostra madre, accusatela, perché lei non è più mia moglie e io non sono più suo marito. Tolga dalla sua faccia i segni delle sue prostituzioni e dal suo petto i segni del suo adulterio… (Os 2,4)

Perciò, ecco, io la sedurrò, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore. (Os 2,16)

Ti farò mia sposa per sempre, ti farò mia sposa nella giustizia e nel diritto, nella benevolenza e nell’amore, nella fedeltà, e tu conoscerai il Signore. (Os 2,21-22)

La Scrittura non ha paura di mostrare l’amore nel suo punto più fragile. La storia di Osea e Gomer non comincia con parole tenere, ma con un’accusa dura, quasi brutale. C’è rabbia, c’è umiliazione, c’è la ferita aperta dell’infedeltà. Non viene censurata. Non viene spiritualizzata. Viene detta.

Ed è proprio questo a renderla sorprendentemente vera anche oggi. C’è una forma di infedeltà che non fa rumore. Non esplode in uno scandalo, non arriva subito all’adulterio conclamato, ma scava lentamente. È l’infedeltà quotidiana: lo sguardo che si ritrae, la presenza che si spegne, l’altro che smette di essere scelto. Come l’acqua che scorre sotto un ponte, può sembrare innocua, ma alla lunga è capace di far crollare anche i matrimoni più solidi.

Il testo di Osea intercetta questa verità profonda: l’infedeltà non è solo un atto, ma un processo. E quando diventa manifesta, mette la coppia davanti a un bivio che la nostra cultura conosce bene: condannare o chiudere un occhio. Vendicarsi o normalizzare. Tagliare o tollerare.

Osea sceglie una terza via, che è la più faticosa: restare senza negare il dolore.

Dal punto di vista psicologico, Osea è un uomo attraversato da una rabbia autentica. Non la rimuove. Non la maschera di spiritualità. La esprime. In termini di Analisi Transazionale, potremmo dire che il suo Bambino ferito prende voce: chiede giustizia, riconoscimento, riparazione. Sarebbe pericoloso saltare questo passaggio. Un perdono che non attraversa la rabbia è fragile, perché non nasce dalla verità.

Ma Osea non resta lì. Sotto la rabbia, ascolta qualcosa che ancora vive: l’amore. E qui avviene il passaggio decisivo allo Stato dell’Io Adulto. Non perché il dolore sparisca, ma perché l’Adulto permette di non essere governati né dal Genitore Punitivo (“non meriti nulla”) né dal Bambino Vendicativo (“ti farò pagare”). L’Adulto sceglie nella realtà, non nell’impulso.

La condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore. Il deserto, nella vita di coppia, non è una punizione ma uno spazio di verità. È il tempo in cui cadono le illusioni, i copioni relazionali, le complicità superficiali. È il luogo in cui non si può più mentire, né all’altro né a se stessi. Solo lì può riemergere la bellezza originaria del legame.

Il perdono, infatti, non è un atto eroico né una scorciatoia morale. Se fosse dato solo “perché bisogna farlo” o per sentirsi migliori, diventerebbe un gesto forzato, persino superbo. Psicologicamente, sarebbe un perdono contaminato dal bisogno di controllo o dalla paura dell’abbandono.

Il perdono vero è una proposta di futuro. Non cancella il passato, ma dice: la tua colpa non esaurisce chi sei. Per questo non può essere vissuto da soli. Chi ha tradito è chiamato ad accoglierlo non come un lasciapassare, ma come una responsabilità nuova.

Spesso chi ha tradito si sente imperdonabile. Ed è proprio qui che il perdono dell’altro diventa profezia: riapre la possibilità di credere ancora nell’amore. Non ingenuo, non cieco, ma più adulto e più vero.

Osea non racconta una favola. Racconta un amore che rifiuta la scorciatoia. Un amore che non confonde il perdono con la debolezza, né la giustizia con la vendetta. Un amore che sceglie di restare umano, perché solo così può diventare davvero divino.

Antonio e Luisa

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Litigate da adulti o da bambini?

Ci sono conflitti di coppia che non nascono da grandi differenze di visione o da problemi oggettivamente irrisolvibili. Nascono piuttosto da un movimento interiore silenzioso: due adulti che, sotto pressione, smettono di abitare la loro maturità e si incontrano nello Stato dell’Io Bambino. È una dinamica molto più frequente di quanto si pensi e, proprio perché spesso inconsapevole, può diventare profondamente logorante.

Quando entrambi i coniugi restano nel Bambino e scivolano nella competizione, il conflitto cambia natura. Non è più un luogo di confronto, né un’occasione di crescita. Diventa una lotta per affermare il proprio dolore, una ricerca di conferme che passa attraverso la contrapposizione. In quei momenti il problema concreto passa in secondo piano: ciò che conta è non perdere, non cedere, non sentirsi meno dell’altro.

L’Analisi Transazionale ci aiuta a dare un nome a ciò che accade, mentre l’esperienza cristiana del matrimonio ci ricorda che ogni crisi può diventare un passaggio di maturazione, se accolta con verità.

Il Bambino interiore di ognuno, in sé, non è il nemico. Anzi. È la parte della persona in cui abitano le emozioni, i bisogni, la sensibilità, la capacità di affidarsi e di gioire. È anche il luogo delle ferite più antiche. Il problema nasce quando, davanti a una frustrazione o a una delusione, questa parte prende il comando senza il sostegno dello Stato Adulto. La nostra parte adulta è quella che sta nel presente, nel qui ed ora.

Nella vita di coppia capita spesso che un litigio esploda in modo sproporzionato rispetto all’evento che lo ha scatenato. Non perché ciò che è accaduto sia davvero così grave, ma perché sotto la superficie si è attivata una competizione tra gli Stati Bambino. Succede soprattutto quando uno o entrambi si sentono trascurati, non ascoltati, non riconosciuti.
È in questo passaggio che il confronto rischia di trasformarsi in una gara. Quando entrambi restano nel Bambino, la discussione smette di riguardare ciò che è successo e diventa una competizione affettiva: chi soffre di più, chi ha dato di più, chi è stato più ferito. Ognuno protegge il proprio dolore come un territorio da non cedere. Ascoltare l’altro diventa pericoloso, perché viene vissuto come una perdita di posizione.
In quei momenti il coniuge, pur essendo la persona più amata, viene percepito interiormente come un avversario, quasi come un “nemico” da cui difendersi. Ed è proprio qui che le parole di Gesù – «amate i vostri nemici» – smettono di essere un ideale astratto e rivelano tutta la loro concretezza. Non parlano solo dei nemici esterni, ma di quel passaggio interiore in cui l’altro, ferendoci, smette di apparirci come alleato. Amare in quel momento non significa negare il dolore, ma scegliere di non reagire secondo la logica della competizione. Significa interrompere la spirale del Bambino ferito e fare spazio a uno sguardo più adulto, capace di custodire la relazione anche quando l’altro ci appare, per un istante, come chi ci sta togliendo qualcosa.

In questa dinamica l’altro non è più un compagno di cammino, ma un rivale. E la relazione, lentamente, si inaridisce. Eppure, sotto questa competizione, c’è quasi sempre un bisogno semplice e profondissimo: essere visti, essere riconosciuti, essere amati. Un bisogno legittimo, che però il Bambino non sa esprimere in modo diretto. Così, invece di dire “ho bisogno che tu mi ascolti”, accusa. Invece di dire “mi sento fragile”, si irrigidisce. Invece di chiedere vicinanza, crea distanza.

È un paradosso che molte coppie conoscono bene: più si cerca amore nel modo sbagliato, più si ottiene l’effetto opposto. Perché allora è così difficile uscire da questa dinamica? Perché, in quel momento, restare nel Bambino sembra più sicuro. Uscirne significa abbassare le difese, rinunciare ad avere ragione, esporsi al rischio di non essere accolti. Il Bambino preferisce una sofferenza conosciuta a una vulnerabilità nuova. E così la coppia resta bloccata, anche quando entrambi stanno male.

Ma una relazione non può crescere se resta prigioniera di questa logica. Due Bambini che competono non costruiscono intimità: accumulano risentimento. La via d’uscita non passa dalla repressione delle emozioni, ma dall’attivazione dello Stato dell’Io Adulto. L’Adulto non nega ciò che il Bambino sente, ma se ne prende cura. Traduce l’emozione in parola, il bisogno in richiesta, la ferita in dialogo. È la parte capace di fermarsi, di fare un passo indietro, di scegliere.

Nel matrimonio cristiano, questo passaggio è anche un atto spirituale. Significa scegliere la comunione invece della rivendicazione, la mitezza invece della reazione impulsiva. Significa credere che il legame vale più dell’ego.

È importante ricordarlo: basta che uno solo dei due rientri nell’Adulto perché la dinamica cambi. Non è debolezza, ma una forma alta di responsabilità e di leadership affettiva. Il cambiamento vero avviene quando la coppia smette di chiedersi chi ha ragione e inizia a domandarsi che cosa sta succedendo tra loro. È lì che il conflitto smette di essere un campo di battaglia e può diventare, lentamente, un luogo di verità.

Il conflitto Bambino–Bambino non è un segno di fallimento, ma un segnale. Dice che ci sono bisogni non ascoltati e ferite che chiedono parola. Crescere come coppia significa imparare a custodire il proprio Bambino interiore senza lasciargli il volante nei momenti decisivi. Perché l’amore maturo non è quello che non litiga mai, ma quello che, anche nel conflitto, smette di competere e torna a scegliersi, ogni giorno.

Antonio e Luisa

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Riscoprire il Fuoco nel Tuo Matrimonio

Il fuoco ci richiama le fiamme. Fiamme dell’inferno ma anche dello Spirito Santo. Spirito Santo che è Amore. Il fuoco racconta anche l’amore. Clicca qui per leggere quanto già pubblicato. La riflessione come sempre è tratta dal nostro libro Sposi sacerdoti dell’amore (Tau Editrice).

C’è una parola che attraversa tutta la Scrittura e, se sappiamo ascoltarla, attraversa anche la vita degli sposi. È una parola semplice, concreta, ma potentissima: fuoco. Prima di concludere questo percorso che ci ha accompagnati nella bellezza – e nella fatica – dell’amore sponsale, è necessario fermarsi qui. Non per aggiungere concetti, ma per lasciarci interrogare nel profondo.

Nella Bibbia il fuoco non è mai neutro. Non è solo un elemento naturale. È segno di una Presenza viva. Nel libro dei Numeri, un fuoco illumina l’Arca durante la notte: Dio non dorme, veglia, guida anche quando tutto intorno è buio. A Mosè Dio si rivela in un roveto che arde senza consumarsi: un fuoco che non distrugge, ma chiama; che non annienta, ma custodisce. È un Dio che si manifesta senza imporsi, che attrae senza violentare. Nel Vangelo, però, Gesù va ancora oltre e pronuncia parole che disturbano: Sono venuto a portare il fuoco sulla terra; e come vorrei che fosse già acceso! (Lc 12,49).

Che cosa desidera davvero Gesù? Non il conflitto fine a se stesso, ma un amore rimesso al centro. È come se dicesse: sono venuto a riaccendere ciò che si è spento, a sciogliere ciò che si è irrigidito, a ridare vita a cuori che hanno imparato a sopravvivere invece che ad amare. Il fuoco di cui parla Gesù è il desiderio di Dio di tornare ad abitare il cuore dell’uomo, non come idea, ma come esperienza viva.

La domanda allora diventa inevitabile: questo fuoco arde anche in noi? Si sente nella nostra vita? Nel nostro matrimonio? Illumina, scalda, mette in movimento? Oppure è diventato una brace tiepida, appena percettibile, che non disturba e non riscalda più nessuno?

Nel matrimonio questa domanda è decisiva. Perché l’amore sponsale non è chiamato solo a funzionare, ma a testimoniare. I figli, le persone che vivono accanto a noi, chi incrocia la nostra quotidianità: guardandoci, possono intuire qualcosa di come Dio ama? O vedono solo due persone stanche che resistono, che si adattano, che fanno il minimo indispensabile?

Un fuoco che non scalda e non illumina non è davvero fuoco. E qui la Parola di Dio ci colpisce con una forza disarmante attraverso il messaggio alla Chiesa di Laodicea, nell’Apocalisse: Tu non sei né freddo né caldo… poiché sei tiepido, sto per vomitarti dalla mia bocca (Ap 3,15-16).

La tiepidezza non è il peccato clamoroso. È molto più sottile. È l’abitudine, il “si è sempre fatto così”, il vivere accanto invece che insieme. È quando l’amore non ferisce più, ma nemmeno guarisce. È quando non si litiga più, ma neppure ci si cerca davvero.

La Chiesa di Laodicea assomiglia terribilmente alle nostre chiese domestiche. Alla casa di Antonio e Luisa. Alla tua casa. Ognuno può mettere il proprio nome. È lì che Gesù dice: Ecco, sto alla porta e busso. Non sfonda, non obbliga. Bussa. Attende.

Alla fine della vita non saremo giudicati sull’efficienza, sul successo o sulla perfezione. Saremo giudicati sull’amore. Possiamo immaginare quelle domande che bruciano più di qualsiasi accusa: Hai amato tua moglie? Sei stato fuoco per lei o solo presenza tiepida? Hai messo altro prima della tua vocazione di sposo? Hai capito che da solo eri troppo povero per amare davvero e che avevi bisogno della mia grazia? Ti sei lasciato educare, purificare, trasformare?

Sono domande che non servono a colpevolizzare, ma a svegliarci ora. Perché se il fuoco dello Spirito non viene custodito, alimentato, scelto ogni giorno, il matrimonio entra lentamente in agonia. Non muore all’improvviso: si spegne per mancanza di ossigeno, di verità, di dono.

Questo fuoco è stato incarnato in modo luminoso nella vita di Chiara Corbella Petrillo, quando diceva: «L’amore ti consuma ma è bello morire consumati come una candela che si spegne solo quando ha raggiunto il suo scopo».

Qui l’immagine cambia: non più il roveto che non si consuma, ma la candela che sì, si consuma. E proprio così compie la sua missione. Una candela nuova, perfetta, intatta, è bellissima. Ma è spenta. Non scalda, non illumina. Una candela accesa invece perde la sua forma, cola, si accorcia, si segna. Eppure diventa viva. Diventa utile. Diventa bella.

Sapete quando una sposa o uno sposo sono davvero belli? Non quando sono impeccabili, ma quando sono stanchi e ancora capaci di tenerezza. Quando la giornata li ha consumati eppure non ha indurito il cuore. Papa Francesco lo ha detto con chiarezza: preferisco famiglie con il volto stanco per i sacrifici piuttosto che volti imbellettati incapaci di compassione.

La bellezza autentica non teme il tempo che passa, le rughe, i segni lasciati dalla vita. È la bellezza di chi si è lasciato consumare dall’amore. Una luce che non viene solo dalla persona, ma è riflesso della luce di Dio. Essere fuoco significa questo: consumarsi per amore. Per il coniuge, per i figli, per chi incontriamo. Solo così il matrimonio diventa profezia. Solo così racconta Dio. In un mondo stanco, disilluso e spesso tiepido, una coppia che arde davvero può ancora illuminare la strada e ridare speranza.

Antonio e Luisa

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La gioia di essere profeti

Cari sposi, la medicina è concorde nell’affermare che la risata ha un potere curativo sul corpo perché stimola la produzione di endorfine, serotonina e dopamina, ovvero i neurotrasmettitori associati al piacere, alla motivazione e al benessere.

Oggi la Liturgia ci invita alla gioia, che è ben di più di una semplice risata ma in un certo senso la comprende. La Chiesa, nella sua saggia pedagogia, ci aiuta prepararci ancora meglio al Natale con un’attenuazione del carattere penitenziale dell’Avvento, che nei primi secoli aveva un’impostazione più marcatamente ascetica. Essa segnala che la celebrazione del Natale è ormai vicina e invita a una gioia anticipata, pur nel contesto dell’attesa, soprattutto dopo il tono più severo della domenica scorsa.

Da un punto di vista scritturistico dove emerge la gioia? Non pare che né Giovanni il Battista, né Giacomo invitino esplicitamente ad essa. La gioia è la conseguenza di un’attesa spasmodica che viene esaudita. Provate a pensare cosa avete sperimentato arrivando al termine di uno snervante periodo di studi, oppure alla conclusione dei lavori di costruzione della propria casa, o dell’esito positivo delle analisi dopo anni di cure…

Giovanni Battista è l’ultimo di una serie numerosa di profeti – dai 16 canonici ai 27 includendo quelli che non hanno lasciato scritti – spalmati in un tempo di quasi 1000 anni di storia. Che enorme sospensione vi era in Israele nei confronti del Messia! E Giovanni lo vede, lo tocca, ci può parlare! Da qui la gioia grande: colui di cui hanno parlato da Samuele in poi, passando per Ezechiele, Geremia, Naum, è finalmente tra noi.

È in definitiva la gioia di una Presenza che però in apparenza non è abbagliante, non suscita grande scalpore, passa quasi inosservata. È lo stile di Dio, che vuole agire in medias res, senza dare nell’occhio se non di chi ha uno sguardo di fede.

Per questo, la gioia dell’attesa che celebriamo oggi, è anche la gioia di voi sposi nel rendervi conto di vivere in Cristo per una singolare grazia che avete ricevuto nel matrimonio. Anche voi sposi infatti siete profeti di Cristo. Lo afferma con chiarezza Giovanni Paolo II:

«I testi dei Profeti hanno grande importanza per comprendere il matrimonio come alleanza di persone (ad immagine dell’alleanza di Jahvè con Israele) e, in particolare, per comprendere l’alleanza sacramentale dell’uomo e della donna nella dimensione del segno. Il “linguaggio del corpo” entra – come già in precedenza è stato considerato – nella struttura integrale del segno sacramentale, il cui precipuo soggetto è l’uomo, maschio e femmina”» (Udienza 19 gennaio 1983).

Cioè, mentre i profeti prima di Cristo parlavano soprattutto per annunciare la venuta di Cristo, voi sposi con il vostro amore, con i vostri corpi, con la vostra vita annunciate che Gesù è in mezzo a noi. Si tratta di un dono grande da ricordare ogni giorno e il Natale a sua volta ve lo rammenta, che Gesù si è fatto carne in mezzo a voi.

ANTONIO E LUISA

Essere luce del mondo e profeti dell’amore non significa essere perfetti, ma autentici. Lo siamo proprio nelle nostre fatiche, fragilità e ferite. Una famiglia senza difetti non sarebbe credibile né d’aiuto: sarebbe distante dalla vita reale. La vera testimonianza nasce da come viviamo le relazioni, da come trasformiamo le fragilità in accoglienza, il limite in perdono, la fatica in dono d’amore. Proprio così diventiamo sale della terra. Molte coppie sono luce per altre senza saperlo, convinte di non essere abbastanza. Spesso guardiamo a ciò che manca, dimenticando il valore e la forza che già possediamo.

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Santa Lucia: una donna integra e libera

Oggi la Chiesa fa memoria di Santa Lucia, giovane martire di Siracusa, amatissima soprattutto dai bambini. Per me – Antonio – questo giorno ha un significato ancora più personale: è anche il giorno del mio compleanno. E forse è per questo che, fin da piccolo, Lucia ha abitato la mia immaginazione con la sua luce limpida e ferma. Ma più cresco, più mi accorgo che la sua storia custodisce una verità essenziale della nostra fede: l’importanza del corpo.

In un mondo che spiritualizza tutto o, al contrario, riduce tutto a biologia, Lucia ricorda che il cristianesimo è una fede incarnata. La novità più destabilizzante di Cristo non è un’idea, ma un fatto: Dio si fa carne. Non appare come spirito evanescente o energia cosmica, ma come un uomo con un volto, una voce, delle mani, delle lacrime. Questa non è un’aggiunta secondaria: è la rivoluzione. Se Dio ha assunto un corpo, allora il corpo non è più un “guscio”, ma parte integrante della persona.

La cultura greco-latina tendeva a separare nettamente anima e corpo; Cristo invece ricompone, tiene insieme. La Bibbia già lo suggeriva: l’uomo nasce dal soffio e dalla polvere, dal cielo e dalla terra. E Gesù lo mostra continuamente: ama attraverso il corpo. Con lo sguardo che rialza Pietro, con la mano che tocca il lebbroso, con le lacrime sulla tomba di Lazzaro, con il pane spezzato nell’Ultima Cena. Non c’è gesto di Gesù che non passi attraverso la carne. Persino il tradimento avviene con un bacio. E la croce, il trono dell’amore, è un’offerta totale del corpo e del sangue.

La scelta di Lucia: una logica d’amore che il mondo non capiva

Dentro questa verità si comprende il coraggio radicale di Lucia. Lei desiderava appartenere totalmente a Cristo, e sapeva che questa donazione non poteva avvenire “solo” nell’anima: doveva passare dal corpo. Per questo rifiutò con fermezza un matrimonio imposto, pur conoscendo il rischio della persecuzione. Non fu incoscienza, ma lucidità. I suoi contemporanei probabilmente la giudicarono irragionevole: Perché non sposarsi e poi dedicarsi comunque a Dio? Lucia, però, aveva intuito una cosa che la fede cristiana insegna da sempre: non si può donare il cuore senza donare il corpo. La persona è una unità.

La sua verginità non fu disprezzo del matrimonio, ma risposta a una chiamata unica. La vocazione, in fondo, funziona così: ti chiede tutto. Non perché Dio sia esigente, ma perché l’amore vero non tollera le mezze misure. Chi si dona a Cristo nella verginità dice: “Il mio corpo è per Te”. Chi si dona nel matrimonio dice: “Il mio corpo è per te, sposo o sposa, segno vivo dell’amore di Dio”.

La lettura psicologica: il corpo come luogo della verità

Anche l’Analisi Transazionale ci aiuta a capire questo punto. Il Corpo, nella TA, è spesso il luogo in cui si rivelano i nostri “copioni”: tensioni, adattamenti, paure, gesti automatici. Il Bambino Adattato può usare il corpo per compiacere; il Genitore Normativo per controllare; l’Adulto, invece, lo riconosce come luogo della relazione vera, libera, responsabile.

Lucia è un esempio di Adulto integro: riconosce ciò che sente, decide con coerenza, non si lascia manipolare né dalle pressioni sociali né dalle paure interiori. Il suo corpo diventa l’espressione più limpida della sua libertà. E questo vale anche per noi sposi: nella vita matrimoniale il corpo può diventare luogo di fusione immatura, di ricatto affettivo, o di donazione adulta. Dipende da quale parte di noi sceglie di guidare.

La vocazione degli sposi: amare Dio dentro una carne che parla

Nella mia storia personale – come marito di Luisa – ho capito una cosa decisiva: posso amare mia moglie con tutta l’anima solo se la amo con tutto il corpo. Non esiste un corpo “neutro”, come se l’intimità fosse un’appendice. Nel matrimonio, il corpo è linguaggio sacramentale: dice ciò che le parole non possono dire. Dice: “Io sono tuo. Totalmente, liberamente, fedelmente”.

Se il mio corpo non fosse suo, il mio cuore non riuscirebbe mai a essere realmente suo. È la logica dell’alleanza biblica: “Saranno una sola carne” non è poesia, è teologia. È morale cattolica allo stato puro. La fedeltà non è un limite: è il grembo in cui nasce la libertà dell’amore.

Il corpo come tempio: la lezione finale di Lucia

Viviamo in un mondo che spesso fa due operazioni opposte: idolatra il corpo o lo disprezza. Lo usa come merce, lo consuma, lo espone, lo baratta. Santa Lucia ci ricorda invece la verità più semplice e più alta: il corpo è sacro perché è abitato dallo Spirito Santo.

E proprio perché è sacro, va custodito. Lucia preferì sacrificare la propria vita piuttosto che consegnare il corpo a un amore non autentico. Non fu fanatismo, ma intelligenza spirituale: ciò che è prezioso si protegge. La castità cristiana nasce da qui: non dalla paura, ma dalla coscienza del valore. E allora capisco ancora meglio la grande lezione di Lucia: il corpo è talmente prezioso che merita di essere donato una sola volta, totalmente, definitivamente, a chi abbiamo promesso amore eterno – nel matrimonio o nella verginità consacrata. Questo è l’amore maturo. Questo è l’amore che illumina. Questo è l’amore che salva

Antonio e Luisa

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Il controllante: la roccia che non può sbagliare

Oggi entriamo nel secondo stile di adattamento. Dopo il Compiacente, incontriamo il Controllante. A differenza di quanto il nome potrebbe far pensare, il Controllante possiede moltissime qualità preziose. Il punto decisivo, però, è che queste risorse siano orientate dalla verità dell’amore e non governate dalla paura dell’abbandono. Il Controllante pensa: Devo essere impeccabile e forte per valere. Sostiene tutto. Ma sotto la corazza vive la paura di non bastare. Clicca qui per leggere quanto già pubblicato.

Chi vive accanto a un coniuge controllante lo sa: c’è una forza dentro questa persona che organizza, struttura, dirige, tiene insieme. Una forza che, nei momenti di confusione, regge la casa, prende decisioni, non molla. E questo, nel matrimonio, è un dono vero. Perché la vita familiare non è fatta solo di emozioni: ha bisogno anche di concretezza, di responsabilità, di qualcuno che non scappi quando tutto diventa pesante.

L’Analisi Transazionale chiama questo stile adattamento “Persecutor” o “Controllante”. Non è un’etichetta morale, non indica un cattivo carattere. Descrive semplicemente un modo di reagire allo stress: governando la realtà, riducendo l’imprevisto, tenendo tutto sotto una precisione severa che dà sicurezza.

Dietro questa modalità, quasi sempre, c’è una storia. Spesso il Controllante è stato un bambino che ha imparato presto che l’amore e l’approvazione passavano dalla prestazione. “Sii bravo”, “Non sbagliare”, “Conta su te stesso”, “Non deludere”. Messaggi che, nel tempo, diventano una seconda pelle. Così la persona cresce con una convinzione silenziosa: per essere degna devo essere impeccabile. Per sentirmi al sicuro devo tenere tutto sotto controllo.

E questo, nella vita di coppia, si traduce in un partner affidabile, preciso, responsabile. Uno che difficilmente lascia le cose al caso. Uno che spesso “regge” quando l’altro vacilla. Ma anche uno che può faticare con la spontaneità, con la leggerezza, con la vulnerabilità. La sua corazza è l’efficienza. Finché controllo, non ho bisogno di sentire la paura.

È importante che tu, che gli stai accanto, non smarrisca mai questo sguardo: sotto la rigidità c’è quasi sempre una ferita. Dietro l’inflessibilità, una fragilità mai autorizzata a mostrarsi. Dietro la durezza, un cuore che teme il giudizio e il fallimento.

La luce del Controllante, nella coppia, è grande. È la stabilità, la direzione, la capacità di portare avanti le cose anche quando costano. È la forza di chi non scappa dalle responsabilità. C’è qualcosa di profondamente evangelico in questa postura: ricorda Giuseppe, l’uomo giusto che protegge, che agisce, che regge il peso delle scelte senza clamore. È una forza preziosa, anche sul piano spirituale: dice fedeltà, costanza, senso del dovere.

Ma ogni dono, se non viene abitato dalla grazia, può diventare una trappola. Quando la paura prende il posto della fiducia, la forza si irrigidisce. E allora il controllo diventa eccessivo, la precisione diventa perfezionismo, la determinazione diventa inflessibilità. Il partner controllante può iniziare a correggere troppo, a notare prima gli errori che i passi avanti, a faticare a lasciare spazio. Può sembrare freddo, distante emotivamente. Può vivere le emozioni come una debolezza da reprimere. E spesso giudica se stesso con una durezza che poi, inevitabilmente, ricade anche sulla relazione.

Tutto questo non nasce dall’arroganza. Nasce dalla paura. Una paura antica, profonda, spesso mai nominata. Spiritualmente, il volto del Controllante assomiglia molto a quello di Marta: una donna buona, generosa, forte, ma così affannata dal fare da smarrire, per un attimo, la possibilità di lasciarsi amare. “Marta, Marta…”, le dice Gesù. Non per rimproverarla, ma per invitarla a un riposo più profondo. Anche il Controllante ha bisogno, prima o poi, di sedersi. Di deporre le armi. Di non dover dimostrare continuamente di essere all’altezza.

Nel cuore del Controllante c’è un desiderio grande di essere amato, ma anche il timore che, se si mostrasse fragile, potrebbe perdere valore. Vuole essere visto, ma mostra soprattutto la parte forte. Vuole essere accolto, ma teme che la sua debolezza diventi un varco per essere ferito. Per questo costruisce strutture, regole, confini rigidi. Si protegge governando.

Ma l’intimità vera nasce solo dove c’è spazio per la fragilità. E Dio stesso entra sempre dalle crepe. Il Controllante lo intuisce, ma lo teme: affidarsi è troppo rischioso. Eppure, senza questo abbandono, non può esserci una comunione piena né con Dio né con te.

Se tu vivi accanto a un partner così, il tuo ruolo è delicato e prezioso. Puoi diventare, senza forzare, un luogo di libertà. Per chi ha sposato un Controllante, la prima vera sfida è non entrare in una lotta di potere. Inutile cercare di “vincerlo” sul suo stesso terreno: il controllo. Serve invece fermezza unita a mitezza. È importante mettere confini chiari, senza accusare, ma anche senza sottomettersi. Aiuta molto riconoscere e valorizzare apertamente il suo impegno, così da non fargli sentire che deve meritarsi l’amore con la prestazione. Allo stesso tempo, è sano non delegargli tutto: condividere le responsabilità è un modo concreto per dirgli che non è solo. Piccoli gesti di fiducia, scelte fatte insieme, spazi in cui anche l’errore è consentito, aiutano lentamente il Controllante a rilassare la presa. Non perché smetta di essere forte, ma perché impari a non dover essere forte da solo.

Crea piccoli spazi di verità, dove possa abbassare la guardia senza sentirsi smascherato. Mostra, con la vita, che essere imperfetti non distrugge il legame. Ricordagli, con gesti più che con discorsi, che la grazia vale più della prestazione.

Il cammino del Controllante è un passaggio dalla perfezione alla fiducia, dal controllo alla comunione, dal fare al lasciarsi amare. Quando scopre che può essere fragile senza perdere valore, quando osa chiedere aiuto, quando accetta che non tutto dipende da lui, allora nasce una nuova qualità dell’amore. Un amore meno rigido, più umile, più reciproco. Un amore che non controlla per paura, ma guida con mitezza.

Aspettare il Natale con i figli

Aspettare il Natale con i figli è una delle esperienze più intime e feconde per una famiglia cristiana. Non si tratta solo di accompagnare bambini e ragazzi nella gioia dei canti, delle luci e dei doni, ma di insegnare loro, passo dopo passo, che dietro a quel mistero di festa vi è la presenza viva di Dio che si fa carne e viene ad abitare in mezzo a noi. È un compito educativo e spirituale che impegna profondamente i genitori, chiamati ad essere i primi testimoni della fede. In questo senso, l’Avvento non è soltanto un tempo liturgico della Chiesa quanto piuttosto una vera scuola di vita domestica, in cui i piccoli imparano a conoscere il volto di Cristo attraverso i gesti semplici e concreti vissuti in casa.

Attendere il Santo Natale con i figli significa anzitutto trasmettere loro il senso dell’attesa, che è così estraneo alla cultura dell’immediatezza. Oggi i giovani, e finanche i giovanissimi, sono spesso abituati a ottenere tutto subito, a colmare ogni desiderio con un clic o con un regalo anticipato. Ma l’Avvento educa al contrario: insegna che la gioia più vera matura lentamente, che il cuore si prepara con piccoli passi, che il desiderio stesso è un dono perché ci apre all’accoglienza di Qualcuno che viene. Ogni candela accesa della corona d’Avvento diventa allora per i figli una lezione silenziosa: la luce cresce man mano, come cresce l’attesa nel cuore, fino a esplodere nella Notte Santa. Non per niente, in spagnolo si chiama “Noche buena”, la notte buona.

La famiglia cristiana, in questo tempo, è chiamata a fare della propria casa un luogo di preparazione spirituale. Non bastano le decorazioni e l’albero addobbato se manca l’anima della festa ma, soprattutto, la consapevolezza del suo protagonista. Pregare insieme, leggere i racconti evangelici dell’infanzia di Gesù, recitare il Rosario – magari in forma semplice – costruire il presepe passo dopo passo, aggiungendo ogni giorno un dettaglio, sono gesti che insegnano ai figli che il Natale non è favola o mito ma il mistero centrale della nostra fede. Maria e Giuseppe, con il loro viaggio verso Betlemme, diventano figure di riferimento: genitori che, con fiducia, accolgono la volontà di Dio e conducono il loro Figlio alla vita.

Aspettare il Natale con i figli significa anche educarli all’amore concreto. I bambini possono essere aiutati a comprendere che Gesù nasce nella povertà, che viene come dono gratuito, che sceglie la semplicità e non lo sfarzo. Questo può tradursi in piccoli gesti quotidiani: rinunciare a qualcosa per aiutare chi è nel bisogno, preparare insieme un pacco dono per una famiglia povera, visitare un anziano solo o un malato, dire una preghiera speciale per chi soffre. Così i figli scoprono che la carità non è un optional ma la via per accogliere davvero il Bambino Gesù.

Il Natale, vissuto così, diventa un’esperienza di comunione. I bambini non sono solo destinatari passivi di doni e sorprese ma protagonisti attivi della preparazione, custodi di un’attesa che coinvolge tutta la famiglia. I genitori, con pazienza e amore, diventano come pastori che guidano i piccoli verso la grotta di Betlemme, aiutandoli a comprendere che in quel Bambino si manifesta l’amore eterno di Dio. Anche la liturgia, celebrata insieme nella comunità parrocchiale, diventa un momento centrale: portare i figli alla Messa di Natale significa introdurli nel cuore stesso del mistero, mostrando loro che la vera festa non è attorno all’albero ma davanti all’altare, dove Cristo continua a nascere per noi nell’Eucaristia.

Infine, attendere il Natale con i figli è un’occasione per i genitori di riscoprire la loro stessa fede. I bambini, con la loro spontaneità e il loro stupore, aiutano gli adulti a ritornare all’essenziale, a guardare con occhi nuovi il presepe, a riconoscere la grandezza nascosta nella semplicità. La famiglia, in questo cammino, diventa davvero una piccola Chiesa domestica: luogo in cui la Parola si fa carne non solo nel ricordo liturgico bensì nella vita quotidiana, nei gesti d’amore che uniscono genitori e figli.

Così, quando giunge la notte di Natale e il Bambino di Betlemme si dona ancora una volta al mondo, i figli non saranno solo spettatori di una tradizione ma autenticamente partecipi di un mistero. Saranno pronti a capire che quel piccolo neonato è il Dio che salva, Colui che viene a portare pace, gioia e luce. E i genitori, vedendo brillare nei loro occhi lo stupore della fede, sapranno che l’attesa condivisa ha portato frutto: Cristo è nato davvero non solo nella grotta ma nel cuore della loro famiglia.

Fabrizia Perrachon

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E anche quando sembra che tutto sia finito, Dio sta nascendo

Il Natale ci sorprende sempre, anche quando pensiamo di averlo già capito. Torna ogni anno con la forza di un avvenimento che non può essere abitudinario, perché ci mette davanti all’Incarnazione, al Dio che entra nella storia con la fragilità di un bambino e con l’umiltà di chi sceglie di non imporsi.

Ma il Natale, se lo lasciamo parlare, non ci chiede soltanto di contemplare una nascita, ci costringe a volgere lo sguardo anche al fine, al compimento, alla direzione ultima della nostra vita. Non basta chiedersi quando è nato Gesù, occorre chiedersi perché è nato e per chi è nato; e, di riflesso, occorre domandarsi a cosa siamo chiamati noi, quale fine ci attende e verso Chi siamo invitati a camminare. Fra l’altro il Natale è anche molto vicino alla fine dell’anno, quindi in un tempo di bilancio e riepilogo della nostra vita.

Il presepe non è soltanto la rappresentazione di un inizio, è la rivelazione di un percorso. Quel Bambino che riposa nella mangiatoia porta già con sé il segno della croce: non perché il Natale sia triste, ma perché la luce che sfolgora nella notte di Betlemme è la stessa luce che illuminerà il calvario (infatti, i re magi porteranno anche la mirra che veniva utilizzata per la sepoltura).

Nel Natale contempliamo la dolcezza di Dio che si fa vicino, ma non possiamo ignorare che quella vicinanza è venuta per condurci verso la Pasqua, verso una vita che trova senso solo se orientata a ciò che non finisce.

Ed è proprio dentro questo movimento tra inizio e fine che si colloca anche l’esperienza di chi vive la ferita della separazione con fedeltà. Il Natale è la festa della famiglia anche se il coniuge se n’è andato? Assolutamente sì! Perché la mancanza della moglie o del marito richiama la Presenza.

La famiglia, agli occhi di Dio, non è quella perfetta, ma un vincolo inciso nella carne e nello spirito, una chiamata che non viene cancellata dalle fragilità umane. I separati fedeli, con la mancanza del coniuge accanto a loro, indicano a Chi bisogna guardare: è un’assenza che richiama la Presenza. Non una ferita che paralizza, ma un varco, una feritoia attraverso cui passa una luce diversa.

La mancanza dell’altro non diventa negazione dell’amore, ma suo compimento in una forma diversa, non più rivolto prevalentemente verso una persona, ma verso tutti. Certo, il coniuge che manca pesa molto, come negarlo, ma l’amore non cessa e si trasforma in una fedeltà che non si appoggia solo sulle forze umane, bensì su un legame che trova radice in Dio stesso. In questo, essi vivono in modo tutto particolare ciò che il Natale insegna a ogni cristiano: Dio viene anche dove non c’è spazio, anche dove sembra tutto chiuso, anche dove la storia sembra essersi spezzata.

Il Natale ci chiede di guardare con verità la nostra vita e di riconoscere che ciò che vediamo non è tutto. Ci sono aspetti che ci sfuggono, promesse che ancora non comprendiamo, dolori che faticano a trovare un significato: ma se contemplato con fede, il Natale ci ricorda che l’inizio illumina il fine e che il fine dà senso all’inizio. La nascita di Cristo non elimina il dolore, ma lo attraversa, non cancella le mancanze, ma le trasfigura, non evita la croce, ma la prende su di sé.

E proprio per questo ci rivela che anche una famiglia ferita resta famiglia, anche una tavola incompleta resta luogo santo. La loro esperienza ci ricorda che fede e fedeltà non sono virtù astratte, ma scelte concrete, spesso faticose, che trovano senso solo se orientate a un Amore più grande, che non delude e non tradisce. Nel loro custodire la promessa nuziale – una promessa che per molti appare “interrotta”, “incompiuta”, “impossibile” – essi mostrano una via di speranza che non dipende dagli eventi, ma dal cuore con cui si donano. E così, anche nella notte, possono diventare una piccola Betlemme: un luogo dove Dio può nascere ancora.

Davanti alla mangiatoia, in silenzio, comprendiamo che il vero dramma dell’uomo non è ciò che gli manca, ma ciò che non desidera più: ciò che veramente salva è la Presenza di Dio e tutto nella vita, anche ciò che ferisce, può diventare luogo d’incontro con Lui, se lo lasciamo entrare.

Il Natale allora ci educa a guardare avanti, a non temere ciò che verrà, a vivere il tempo non come una minaccia, ma come un dono, a lasciarci trasformare da quel Bambino che ha scelto di abitare la nostra fragilità per condurci alla pienezza. Non si nasce per restare nella culla, si nasce per camminare verso il fine: il fine è l’abbraccio del Padre, la comunione che non finisce, la gioia che nessuno potrà togliere.

Così, contemplando il Natale, possiamo capire qualcosa in più della nostra vita: che ogni passo, anche il più faticoso, può portarci verso la luce, che ogni ferita può diventare luogo di rivelazione, che ogni mancanza può trasformarsi in attesa e che proprio quando sembra che qualcosa sia finito, in realtà la Presenza sta nascendo.

Ettore Leandri (Presidente Fraternità Sposi per Sempre)

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Una promessa con una premessa

Dal «Commento sui salmi» di sant’Agostino, vescovo ​(Sal 109, 1-3; CCL 40, 1601-1603) ​Dio stabilì un tempo per le sue promesse e un tempo per il compimento di esse. Dai profeti fino a Giovanni Battista fu il tempo delle promesse; da Giovanni Battista fino alla fine dei tempi è il tempo del loro compimento. Fedele è Dio, che si fece nostro debitore non perché abbia ricevuto qualcosa da noi, ma perché ci ha promesso cose davvero grandissime. Pareva poco la promessa: Egli volle vincolarsi anche con un patto scritto, come obbligandosi con noi con la cambiale delle sue promesse, perché, quando cominciasse a pagare ciò che aveva promesso, noi potessimo verificare l’ordine dei pagamenti. Dunque il tempo dei profeti era di predizione delle promesse. […]. Ma era poco per Dio fare del suo Figlio colui che indica la strada: rese lui stesso via, perché tu camminassi guidato da lui sul suo stesso cammino.

Sovente troviamo nell’Ufficio testi di sant’Agostino e, come sempre, ci illuminano con la sapienza ed insieme la semplicità con cui sono esposte le verità della nostra fede divina, e sembra proprio che per santi di questo calibro risulti assai semplice rendere fruibile ai comuni fedeli la lettura di così alte intuizioni teologiche.

Il fulcro della nostra riflessione di oggi è sul tema della promessa di Dio, ovviamente Agostino si concentra sulla promessa del tanto atteso Messia, e la Chiesa non può che aiutarci nell’Avvento con letture di questo genere, ma noi vogliamo ricordare altre promesse legate alla seconda parte del testo che abbiamo riportato.

La promessa a cui ci riferiamo è quella che riguarda il sacramento del Matrimonio, ma non è quella che i due fidanzati si scambiano diventando così neosposi, insomma non è quella che si legge in chiesa, non è la formula del consenso anche se in realtà parte da lì. Il consenso infatti ad un certo punto recita così : “con la Grazia di Cristo, prometto di…”, come a dire che io, uomo o donna, prometto sì ma con la Grazia di Cristo, cioè non voglio essere da solo o da sola in questa promessa, non sarò l’unico attore di questa promessa, non voglio tutto sulle mie spalle, non è solo una promessa umana, ma una promessa con una premessa che è la Grazia di Cristo.

Se proviamo a dirla col suo significato contrario si capisce molto meglio: senza la Grazia di Cristo non voglio promettere... gli sposi sacramentati quindi non si arrischiano a promettere qualcosa che sanno benissimo di non riuscire a mantenere con le sole forze umane.

E qual è dunque la promessa di Dio? La grazia sacramentale, cioè la promessa di aiutare gli sposi con ogni mezzo necessario per vivere la loro condizione di sposi. Gli sposi sacramentati hanno la sicurezza di ricevere da parte del Signore tutti gli aiuti per affrontare le varie prove che la loro condizione di vita necessita, in ogni ambito ed in ogni situazione storica. Cari sposi, abbiamo un’assicurazione sulla vita nel vero senso della parola, coraggio!

Giorgio e Valentina

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Nulla vale più dell’amore

Siamo ormai alla fine del Cantico. Clicca qui per leggere quanto già pubblicato. La riflessione come sempre è tratta dal nostro libro Sposi sacerdoti dell’amore (Tau Editrice).

L’amata: Se uno desse tutte le ricchezze della sua casa in cambio dell’amore, non ne avrebbe che disprezzo.

Sono parole durissime. Parole che non lasciano sconti. Il Cantico dei Cantici va dritto al centro della questione: l’amore non si compra. Mai. Con nulla. Neppure con tutto.

Questo versetto dialoga in modo sorprendente con l’Inno alla carità di san Paolo: «E se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per essere bruciato, ma non avessi la carità, niente mi giova» (1Cor 13,3). È come se la Scrittura, dall’Antico al Nuovo Testamento, ci dicesse la stessa cosa con parole diverse: puoi avere tutto, puoi anche perdere tutto, ma se non ami davvero non hai nulla.

Se credo che l’amore possa essere equiparato alle ricchezze materiali, allora non ho capito né la vita né me stesso. Non posso comprare neppure un grammo d’amore con tutte le ricchezze del mondo. L’amore sta su un altro piano. È realtà eterna, perché viene da Dio. «Dio è amore» (1Gv 4,8). Tutto il resto passa.

I beni materiali, quando diventano un fine, creano l’illusione di riempire il vuoto che portiamo dentro. Ma qualcosa di finito non potrà mai colmare un desiderio di infinito. È una legge dell’anima. Possiamo riempire le giornate, non il cuore. Possiamo saziare i sensi, non il desiderio profondo di essere amati per davvero.

Per questo questo versetto del Cantico non parla solo ai ricchi. Parla a tutti. Tutti abbiamo le nostre “ricchezze”. Non sono sempre lingotti d’oro. A volte sono molto più piccole e molto più pericolose: la carriera, l’immagine, il successo, l’indipendenza, il tempo per noi, la partita di calcetto, le uscite con gli amici. Possono persino essere cose buone: un servizio in parrocchia, un gruppo di preghiera, un impegno ecclesiale. Ma quando diventano un alibi per fuggire dalla relazione che Dio ci ha affidato, allora smettono di essere un dono e diventano una fuga.

L’amore di Dio va cercato prima in casa. Prima nel volto della moglie, del marito, dei figli. Poi fuori. Altrimenti rischiamo una forma sottile di spiritualità disincarnata: cerchiamo Dio ovunque tranne lì dove Lui ci ha già messi. È una tentazione antica: cercare il sacro per non affrontare il concreto.

Il Cantico è spietato: alla fine, di tutte queste “ricchezze”, non ne avremo che disprezzo. Non perché siano cattive in sé, ma perché non possono reggere il confronto con ciò che conta davvero.

Questo versetto ci invita a un cambio di logica: dalla logica del possesso alla logica del dono. L’amore, se non è messo al primo posto, non è amore. Diventa uno strumento tra gli altri per cercare la nostra soddisfazione. E allora la relazione sponsale finisce sullo stesso piano della carriera, del tempo libero, degli interessi personali. Ma un amore così, prima o poi, non regge la fatica. Quando il costo supera il beneficio, si scappa. E la separazione diventa una conseguenza “logica”. Ma è davvero amore questo?

Anche io, lo dico con molta verità, sono partito male con Luisa. Avevo un desiderio sincero di vivere il matrimonio secondo Dio, secondo la Sua legge, mettendo l’insegnamento della Chiesa come bussola per le nostre scelte. Eppure non decollava. Restava tutto faticoso. Attraversavo momenti di dubbio, di aridità, di sofferenza. A un certo punto ho messo in discussione tutto: la mia scelta, la relazione, perfino la decisione di avere subito due bambini. Stavo male. Mi sentivo in gabbia. Mi sentivo incastrato.

Mi ero sposato a 27 anni. Un’età normale, ma non più tanto nei nostri tempi. Guardavo i miei amici: vivi, spensierati, senza responsabilità, spesso ancora “serviti e riveriti” in casa. Io invece tornavo la sera stanco, carico di doveri. E non riuscivo più a vedere la bellezza di quel matrimonio in cui avevo creduto quando avevo detto il mio sì.

Poi, a un certo punto, ho visto una differenza che mi ha disarmato. Ho visto in Luisa una pace. Una pace che non veniva da me. Anzi, in quel periodo probabilmente ero per lei più motivo di preoccupazione che di gioia. Era una pace che nasceva da una scelta più radicale della mia. Lei aveva messo il nostro matrimonio prima di ogni altra cosa. Si donava totalmente a me e ai nostri figli. Anche quando io ero tutt’altro che amabile. Anzi, proprio allora dava ancora di più.

Ed è lì che ho capito. Io ero un po’ come il giovane ricco del Vangelo: «Gesù, fissandolo, lo amò… ma quello se ne andò triste, perché aveva molte ricchezze» (cfr. Mc 10,21-22). Non stavo dando tutto. C’era una parte di me che non voleva rinunciare ai privilegi della vita da single. Non volevo rinunciare a quelle che credevo essere le mie ricchezze: gli amici, il calcetto, la tranquillità quando rientravo a casa.

Guardavo la mia vita come una lunga rinuncia a ciò che avevo prima. Ero così concentrato su ciò a cui avevo detto di no, da non assaporare ciò che avevo detto di sì. Non riuscivo a scorgere la meraviglia di una donna che si offriva totalmente a me, che faceva di Cristo il centro di tutto. Il dono più grande che Dio mi aveva fatto io lo vivevo come una perdita.

Solo quando ho fatto anch’io quel salto interiore, tutto è cambiato. Non ho dovuto rinunciare a tutto, come temevo. Ho mantenuto il mio sport, gli amici. Ma hanno trovato il loro posto giusto. Non più al centro. La priorità è diventata la mia famiglia.

Ed è qui che il Cantico diventa carne nella vita: quando l’amore passa davvero al primo posto, tutto il resto si ordina. Quando invece l’amore viene dopo, anche le cose buone diventano un peso. Alla fine, il versetto dice una verità semplice e vertiginosa: puoi dare tutto per avere molte cose, ma non potrai mai dare qualcosa per comprare l’amore. L’amore non si compra, si accoglie. Non si possiede, si riceve. Non si trattiene, si dona. E solo chi ha il coraggio di mettere l’amore prima delle proprie “ricchezze” scopre che non sta perdendo nulla, ma sta finalmente cominciando a vivere.

Antonio e Luisa

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Gelosia nuziale

Cari sposi, uno dei brani di musica classica che preferiva mio papà era il “Dies Irae” di Giuseppe Verdi, tratto dalla sua Messa da Requiem, composta in occasione della morte dell’amico Alessandro Manzoni. Chi l’ha ascoltata non può sobbalzare nell’udire la descrizione uditiva del Giorno del Giudizio Universale con immagini potenti, la tromba che risveglia i morti, la natura stupita e la resurrezione delle creature per rispondere al giudice, mentre il libro della vita svela ogni peccato e nulla resterà impunito.

Leggere la Liturgia odierna e in particolare il Vangelo ci riporta un po’ a questo clima drammatico di sapersi destinati a un giudizio che metterà in luce ogni momento e ogni atto della nostra vita. Ma la figura di Giovanni il Battista, con il suo tono sferzante e sfidante, può sembrare forse stridente con il clima un tanto “sdolcinato” del Natale.

È allora l’occasione per capire meglio cosa si intende per “ira di Dio”. Sappiamo che l’ira di Dio non va intesa come uno sfogo irrazionale e passionale di vendetta o collera emotiva, come ahimé accade a noi quando arriviamo al limite. Ricordiamo cosa dice il Catechismo al riguardo, cioè che Dio non è “adirato” come l’uomo, perché “attribuire a Dio emozioni come la collera non significa che Dio provi tali sentimenti, ma che la sua giustizia rifiuta il male” (CCC 370; cfr. CCC 211, 277).

Quindi l’ira va capita come una manifestazione della Sua santità e giustizia intrinseca in risposta al peccato di ogni persona. Se vedessimo un figlio piccolo azzannato da un cane, come sarebbe la nostra reazione? D’istinto, avremmo una risposta energica davanti a un pericolo imminente: tale è l’ira di Dio, cioè la Sua radicale ripugnanza e opposizione verso tutto ciò che è peccato e ingiustizia.

Ecco come Benedetto XVI chiarisce spesso il significato dell’“ira” biblica: l’ira di Dio è la reazione della sua santità contro il male… non è un sentimento, ma la giustizia che si oppone all’ingiustizia (Udienza generale, 9 maggio 2012). In questo senso, Giovanni Battista, rivolgendosi ai Farisei e Sadducei, li mette in guardia contro il Giudizio che Dio sta per eseguire, invitando a una pronta conversione e a frutti degni di penitenza per sfuggirvi (Mt 3,8).

È molto interessante notare che l’ira di Dio ha un legame con la gelosia di Dio nel vedere che il suo popolo si allontana dall’Alleanza. Tale è senso ultimo degli avvertimenti di Giovanni Battista, il quale, come tanti suoi predecessori, si pensi a Osea, Isaia, Geremia…, hanno utilizzato la metafora sponsale per far comprendere al popolo come la pensa e soprattutto cosa prova Dio nei confronti di Israele: Dio è lo Sposo che ama la Sposa, anche quando questa è infedele e si allontana da Lui. Il peccato della Sposa è causa di profonda “passione” e gelosia nel Cuore divino. In ciò consiste l’ira, come lo sforzo e la volontà di riconquistare ogni persona ad un rapporto di vero amore con Sé.

In questo senso cari sposi, vediamo così l’invito del Battista alla conversione. Non è l’ennesimo dovere che ci autoimponiamo in occasione dell’Avvento, della serie: “stavolta sì che miglioro la mia vita!”. Piuttosto è la naturale conseguenza del sentirmi amato, atteso, voluto, desiderato dallo Sposo Gesù.

L’Avvento per voi sposi può essere l’occasione per cogliere con un accento diverso e più intenso il modo concreto con cui Gesù vi ama e che sia proprio questo a smuovere la vostra volontà e lasciarsi trasformare da Lui. Il Signore è instancabile nell’attendere il nostro “sì”, come ci ricorda Papa Francesco:

E ricordiamoci ancora una cosa: con Gesù la possibilità di ricominciare c’è sempre: mai è troppo tardi, sempre c’è la possibilità di ricominciare. Abbiate coraggio, Lui è vicino a noi e questo è un tempo di conversione. Ognuno può pensare: “Ho questa situazione dentro, questo problema che mi fa vergognare…”. Ma Gesù è accanto a te, ricomincia, sempre c’è la possibilità di fare un passo in più. Egli ci aspetta e non si stanca mai di noi. Mai si stanca! E noi siamo noiosi, ma mai si stanca.

ANTONIO E LUISA

Le parole di don Luca ci ricordano, come sposi, che l’Avvento è un tempo prezioso per rimettere Gesù davvero al centro della nostra vita e del nostro matrimonio. È un invito a tornare alla sorgente, a custodire e approfondire non solo la relazione di coppia, ma prima ancora quella personale con il Signore. Perché solo da un amore ricevuto ogni giorno può nascere un amore donato senza fatica. Quando Cristo non è un dovere ma una presenza viva, anche il donarci l’uno all’altro smette di essere un peso e diventa risposta grata, gioiosa, libera al Suo amore che ci precede e ci sostiene.

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Ma non ti annoi sempre con la stessa donna?

Qualche tempo fa un amico mi ha confidato un episodio che mi ha profondamente colpito. Questo amico fa parte del Rinnovamento nello Spirito, vive la sua fede senza nasconderla, nemmeno sul posto di lavoro. È sposato, ha quasi cinquant’anni, tre figli, e negli ambienti che frequenta viene spesso etichettato come quello “strano”. Strano perché crede, prega, sceglie. Ma anche strano in un modo che attrae: perché porta con sé la luce di una scelta radicale.

Un giorno un collega, suo coetaneo, non sposato, abituato a vivere di relazioni brevi, di avventure e di consumo affettivo, gli si avvicina con una domanda tanto diretta quanto rivelatrice: Ma tu non ti stufi di fare l’amore sempre con la stessa donna? Non è sempre uguale? Non ti stanchi di lei, visto che il tempo non migliora certo il corpo, ma lo rende solo più vecchio e meno attraente?

Ho voluto riportare questa domanda perché, pur nella sua rudezza, è una delle domande più diffuse del nostro tempo. È la domanda di una cultura che riduce l’amore a prestazione, la sessualità a stimolo, il corpo a oggetto. È la domanda di un Io Bambino che cerca il piacere immediato, che teme la frustrazione, che fugge la profondità per non sentire il vuoto. Che non sa entrare in una intimità profonda e autentica.

Rispondere seriamente a questa domanda significa prima di tutto chiarire cosa intendiamo quando diciamo “fare l’amore”. Perché spesso si confonde l’atto sessuale con l’amore stesso. Ma fare l’amore, almeno per me, ad un livello prima ancora che sacramentale, è dare corpo, carne, voce e respiro a ciò che io e mia moglie ci portiamo dentro ogni giorno. È rendere visibile, attraverso il corpo, una comunione che nasce molto prima, nello sguardo, nell’ascolto, nella pazienza, nel perdono, nella scelta quotidiana di restare.

Come potrei stancarmi di questo? Ogni volta è diverso, perché noi siamo diversi. Ogni volta è più vero, perché l’amore nel tempo si purifica, attraversa crisi, si spoglia di illusioni e diventa più essenziale. Non più fondato sull’idealizzazione, ma sulla conoscenza reale dell’altro. Ed è qui che l’Analisi Transazionale ci aiuta a leggere in profondità ciò che accade: si passa dal bisogno infantile di essere appagati al desiderio adulto di donarsi. Dal “prendo per me” al “mi offro a te”.

Nel gesto dell’intimità coniugale entrano anni di storia: entrano le tenerezze e le stanchezze, i litigi e i perdoni, le parole dette e quelle taciute, le paure condivise, le preghiere sussurrate, i figli messi a letto, le mani che si cercano quando tutto pesa. Non entra solo il corpo. Entra tutta la persona. Per questo non è mai uguale. Perché non siamo mai gli stessi.

Il piacere, allora, non è più una semplice reazione chimico-muscolare, una scarica di pochi secondi che poi però lascia spesso il vuoto. Il piacere vero diventa il sentirsi abitati dall’altro. È l’esperienza di essere “a casa” dentro qualcuno. È la gioia profonda di un’unità che non si può comprare, non si può simulare, non si può improvvisare. È un piacere più lento, più pieno, più spirituale perché è anche psicologico e affettivo.

Resta però l’obiezione finale, la più crudele e la più sincera: Ti piace ancora anche se invecchia? Qui si tocca uno dei grandi misteri dell’amore sponsale. Sì, invecchiamo, tutti e due non solo lei. I corpi cambiano. Le forze diminuiscono. Il tempo lascia i suoi segni. Ma accade qualcosa di sorprendente: gli occhi vedono il cambiamento, il cuore vede la bellezza. E non è una bugia romantica. È una trasformazione dello sguardo.

La Psicologia ci direbbe che ciò che vediamo è sempre filtrato dalla nostra storia emotiva. La Fede ci dice che l’amore vero educa lo sguardo a vedere come Dio vede. Io non vedo solo ciò che mia moglie è ora nel corpo. Io vedo tutto ciò che è stata per me: la ragazza che mi ha scelto, la sposa che mi ha accolto, la compagna che ha sofferto con me, la madre che ha generato la nostra famiglia. Questa immagine interiore non appassisce. Anzi, si approfondisce.

È questo che l’uomo di oggi spesso non comprende: crede che la bellezza sia ciò che stimola, mentre la bellezza più vera è ciò che rimane. È la bellezza che nasce dal legame. È la bellezza che cresce dentro una fedeltà. È la bellezza che solo due sposi possono vedere l’uno dell’altra, perché è fatta di carne, memoria, intimità e alleanza.

E qui ritorna anche la dimensione morale e spirituale: la fedeltà non è una rinuncia al piacere, è la sua trasfigurazione. Non è un limite imposto, ma uno spazio protetto in cui l’amore può diventare pienamente umano. L’uomo che si annoia è spesso un uomo che non ha imparato ad andare in profondità. L’uomo che consuma è un uomo che ha paura di restare. L’uomo che resta, invece, scopre ogni giorno un mistero nuovo.

Per questo, se oggi mi chiedessero se ci si stanca di amare sempre la stessa donna, io risponderei che ci si stanca solo di ciò che non si ama davvero. Io oggi più di ieri non desidero che mia moglie. Nonostante il suo corpo sia oggettivamente invecchiato. L’amore vero, quello che attraversa gli anni, non toglie il desiderio: lo purifica, lo umanizza, lo rende eterno. E forse è proprio questo il miracolo più grande del matrimonio.

Antonio e Luisa

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E se Elodie si fosse accorta di essere preziosa

Episodi come quello che ha coinvolto recentemente Elodie durante un concerto (vai alla notizia), al di là del rumore mediatico e delle opposte tifoserie, toccano corde molto più profonde di una semplice disputa tra libertà. C’è chi ha difeso il diritto dell’artista di mostrarsi come vuole, chi quello del reporter di riprendere ciò che è pubblico. Tutto legittimo, sul piano tecnico. Ma io sento che lì si muoveva qualcosa di più intimo, più fragile, più vero. In quel gesto di indignazione, nato proprio nel momento in cui l’inquadratura ha invaso le parti più intime del corpo, io non riesco a vedere solo rabbia o contraddizione. Io ci leggo un moto dell’anima, un sussulto della coscienza che dice, quasi senza filtri: «Io sono preziosa».

Elodie, come tante persone sotto i riflettori, vive dentro un ruolo. Un ruolo che dà successo, visibilità, potere, consenso. Ma i ruoli – lo sappiamo tutti, anche nella nostra vita quotidiana – possono diventare abiti che stringono. All’inizio proteggono, poi soffocano. Si può essere guardati da milioni di persone e, dentro, sentirsi nudi nel modo sbagliato. Si può essere applauditi e, nello stesso tempo, non sentirsi davvero visti. Per questo io non leggo quella reazione come incoerenza, ma come una crepa nel personaggio, uno spiraglio in cui per un attimo è emersa la persona. Come se, proprio lì, qualcosa dentro avesse detto: non sono solo un corpo da consumare, sono una persona da rispettare.

E allora, con profondo rispetto, nasce una domanda che non vuole essere un’accusa ma una carezza della verità: se davvero una persona sente di essere preziosa, prima o poi nasce anche il desiderio di custodire quella preziosità. Non basta chiederne il riconoscimento quando viene ferita. Custodire significa anche interrogarsi su come ci si offre allo sguardo degli altri. Significa, a volte, scegliere di esporsi meno, di raccontarsi in modo diverso, forse anche di perdere consenso, perdere follower, perdere una parte di successo. Sono scelte che fanno male. Ma spesso sono proprio le scelte che salvano l’anima.

Su questo tema, così delicato e così controcorrente, Papa Francesco ha pronunciato parole di grande luce nell’udienza generale del 18 novembre 2020, ricordando la Beata Karolina Kózka, una ragazza di sedici anni che ha dato la vita pur di non subire una violenza. Disse ai fedeli: «Con il suo esempio, ancora oggi indica, specialmente ai giovani, il valore della purezza, il rispetto per il corpo umano e la dignità della donna».

Karolina, come Maria Goretti, è una testimonianza sconvolgente per la mentalità di oggi. Due ragazze giovanissime che avevano una certezza limpida nel cuore: il loro corpo non era una cosa, era parte di loro stesse. Violare il corpo era violare tutta la persona. E proprio perché si sentivano infinitamente preziose, hanno avuto la forza di dire no anche quando il prezzo era la vita. Non erano moraliste. Erano innamorate della propria dignità.

Oggi, molte ferite nascono proprio da qui: il corpo viene spesso usato come moneta di scambio per ottenere attenzione, visibilità, amore, approvazione. Si pensa: Mi mostro, così valgo. Ma è una bugia sottile e crudele. Perché, alla lunga, questo uso del corpo lascia solchi profondi nell’anima. Illude di dare potere, e invece toglie libertà. Illude di dare amore, e spesso lascia solitudine. Per questo dovremmo aiutare i nostri figli – e anche noi adulti – a riscoprire la bellezza del pudore e della castità.

Il pudore non è vergogna. Il pudore è amore per il proprio mistero. È dire: io non sono tutto per tutti. È protezione della propria intimità, che non è qualcosa da esibire, ma da donare. Solo a chi è disposto a camminare con me per la vita. Avere pudore significa sapere quanto si vale. Significa trattarsi con rispetto prima ancora di chiederlo agli altri.

La castità, poi, non è una negazione del corpo, ma la sua verità più alta. È custodire il linguaggio potente dei gesti, perché dicano davvero ciò che il cuore vuole dire. Perché il corpo parla. Nel sesso il corpo dice: sono tuo, tu sei mia, siamo una cosa sola. Ma queste parole sono vere solo quando il cuore è disposto a dirle per sempre. Altrimenti restano gesti che promettono ciò che la vita non mantiene.

Per questo Papa Francesco ci richiama con tanta forza a purezza, pudore e castità: non per imporre regole, ma per insegnarci ad amare senza perderci. Senza tradire noi stessi. Senza ridurre il nostro valore allo sguardo degli altri.

E allora, tornando a Elodie, io continuo a leggere in quel suo gesto un segnale buono, fragile e vero insieme. Voglio illudermi che sia così. Come un’anima che, per un attimo, ha detto: io valgo più di così. Se quella crepa nel personaggio diventasse un cammino di custodita verità, anche a costo di perdere qualcosa, sarebbe un gesto di coraggio immenso. Perché la vera libertà non è poter fare tutto. È poter scegliere ciò che salva. È scegliere chi voglio essere. E avere il coraggio di restare fedele a quella scelta.

Antonio e Luisa

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Aspettare il Natale con il coniuge

Aspettare il Santo Natale con la propria moglie o con il proprio marito è un’esperienza che, se vissuta nella fede e con fede, acquista un significato che va ben oltre la semplice preparazione esteriore alle feste. È un tempo di grazia, un cammino interiore che la coppia può percorrere insieme, vivendo l’Avvento non come una stagione qualunque ma come un’occasione preziosa per rinnovare la propria fedeltà, rinsaldare il vincolo sacramentale e riscoprire la bellezza del “noi” davanti al mistero dell’Incarnazione.

Il Natale, infatti, non è soltanto memoria di un evento accaduto duemila anni fa quanto piuttosto sentire la presenza viva di Dio che continua a venire incontro all’uomo, facendosi vicino nella quotidianità degli sposi. Prepararsi insieme significa imparare a riconoscere questa venuta di Cristo nella vita coniugale: nel gesto semplice del condividere un pasto, nel sostegno reciproco quando la stanchezza o le preoccupazioni si fanno sentire, nella preghiera fatta a due, magari la sera, quando il silenzio della casa sembra favorire l’ascolto del cuore.

Ogni momento può diventare attesa, ogni gesto può essere un segno di quell’apertura al Bambino che nasce. Per una coppia cristiana, l’Avvento è anche un invito a purificare lo sguardo. Il mondo circostante tende a ridurre il Natale a un tempo di consumo e di frenesia, ma gli sposi credenti sanno che la vera attesa non si misura dalle decorazioni o dai regali, bensì dalla capacità di farsi accoglienti a Cristo, che viene nella fragilità e nella povertà.

Attendere il Natale con la moglie o con il marito diventa, allora, un allenamento spirituale, come prendersi per mano e decidere insieme di dare priorità alla preghiera, al perdono, alla riconciliazione. E se anche in questo periodo emergessero tensioni o fatiche è proprio nel “qui e adesso” che si può cogliere l’occasione per vivere la carità reciproca, ricordando che il matrimonio è un sacramento che rende presente l’amore di Cristo per la Chiesa.

La figura di Maria, Madre di Dio, illumina questa attesa. Lei, che ha custodito nel suo grembo il Verbo fatto carne, diventa modello di ogni sposa e di ogni coppia cristiana. Guardando a Lei, gli sposi imparano ad accogliere la vita con gratitudine e a dire il loro “sì” a Dio nei momenti semplici della quotidianità.

Ugualmente se guardiamo a San Giuseppe, “uomo giusto” per eccellenza, che ha accolto senza giudicare, diventando autentico sostegno per la nuova famiglia. Aspettare il Natale con il coniuge, dunque, significa anche guidare dallo sguardo amorevole dei Santi Sposi, pregando perché il Bambino che nasce renda la propria casa un luogo di pace e di speranza.

Il giorno di Natale, la coppia può vivere con particolare intensità l’Eucaristia, sapendo che quella mangiatoia in cui giace il Figlio di Dio non è altro che il segno di un amore che si dona completamente. Ed è lo stesso amore che gli sposi sono chiamati a riflettere, l’uno verso l’altro, nella loro vita matrimoniale. La celebrazione liturgica si trasforma così in culmine e un punto di partenza nello stesso momento: la coppia, che ha atteso insieme, riceve ora la gioia di Cristo che viene a rinnovare il legame e a rafforzare la missione di famiglia cristiana nel mondo.

Aspettare il Natale con la moglie o il marito, in questa prospettiva, non è soltanto un tempo di dolcezza domestica o di preparativi familiari. È un itinerario spirituale a due voci, in cui lo sguardo dell’uomo e quello della donna si uniscono per contemplare lo stesso mistero.

È un’occasione per ritrovare la profondità della vita di coppia e riconoscere che, proprio nella fedeltà quotidiana e nella condivisione sincera, si fa spazio a Dio che viene. Natale, allora, non sarà semplicemente un giorno di festa ma autenticamente un Santo Natale, conferma che Cristo continua a nascere nel cuore degli sposi che lo attendono insieme, con fede, speranza e amore. Perché la culla più bella ed accogliente è il noi sponsale, reso nuovo e fecondo dall’amore incarnato, Verbo che salva il mondo

Fabrizia Perrachon

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Il compiacente: non può mai deludere

Iniziamo oggi il percorso attraverso i sei adattamenti di personalità. Qui puoi leggere l’introduzione generale alla serie. Lo faremo con uno sguardo particolare: quello dell’altro, del coniuge, di chi vive accanto a una persona con uno specifico adattamento. Come aiutarlo ad essere più libero e amato nella relazione? In questo primo articolo entreremo nella vita di chi ha sposato un Pleaser, una persona dallo stile compiacente.

Il Compiacente: la persona che vive per non ferire, per non disturbare, per non creare attriti. Quella che, quasi naturalmente, antepone i bisogni dell’altro ai propri.

Se vivi accanto a un partner così, forse ti sei accorto che è una persona dal cuore grande. Intuisce i tuoi stati d’animo, capta le tensioni prima ancora che tu le esprima, cerca di smussare gli angoli, di ricucire ciò che si lacera. È spesso la colonna silenziosa della coppia, quella che mette pace quando l’aria si fa pesante, che abbassa i toni quando tutto sembra pronto a esplodere. Con lui o con lei è facile sentirsi accolti, compresi, sostenuti.

Eppure, proprio dentro questa bontà si nasconde talvolta una fragilità profonda. Non sempre ciò che appare come dono nasce dalla libertà. A volte nasce dalla paura.

Il Compiacente porta dentro una frase antica, impressa senza parole nella propria storia: “Solo se non deludo nessuno, allora sarò amato”. Da bambino ha imparato che per mantenere il legame era necessario essere buono, adattarsi, non creare problemi. Così oggi, nel matrimonio, continua a proteggere la relazione come meglio sa: rinunciando a parti di sé. Dice “va tutto bene” anche quando dentro qualcosa si spezza. Minimizza i propri bisogni. Si scusa facilmente, anche quando non ne avrebbe motivo. Teme il conflitto come se fosse una minaccia alla relazione, non come una possibilità di crescita.

Se lo ami davvero, prima di tutto è importante che tu non patologizzi questo suo modo di essere. La sua sensibilità è un dono. La sua capacità di ascolto è una ricchezza. Il suo desiderio di pace è un carisma prezioso. Dentro c’è un riflesso di quel Cristo mite che non spezza la canna incrinata. Ma il problema nasce quando questa mitezza smette di essere scelta e diventa automatismo. Quando la bontà non è più libertà, ma strategia di sopravvivenza.

C’è un rischio serio: che il tuo partner, a forza di mettere te al centro, perda se stesso. Che costruisca un amore fatto di silenzi invece che di verità. Che confonda il “dare la vita per l’altro” con il “scomparire per l’altro”. E questo, anche sul piano spirituale, non è Vangelo. Dio non ci chiama a svuotarci della nostra identità per essere amati. Non c’è amore vero senza verità. Non c’è comunione quando uno dei due smette di esistere per paura di perdere l’altro.

Dietro molti comportamenti del Pleaser c’è un bisogno antico: essere accolto senza condizioni. Un bambino interiore che ha imparato presto che l’amore si guadagna. Ma l’amore cristiano, quello che fonda il matrimonio, non funziona così. L’amore non si merita: si riceve. È la logica del Padre che corre incontro al figlio, non perché è stato perfetto, ma perché è figlio. Ed è proprio qui che il tuo partner, senza saperlo, sta ancora camminando: nel passaggio dalla paura di non essere amato alla fiducia di esserlo comunque.

Tu, come coniuge, hai un ruolo delicatissimo in questo cammino. Amare un Compiacente non significa solo beneficiarne la dolcezza, ma anche custodire la sua libertà. Significa creare uno spazio sicuro in cui possa esprimersi senza temere di perdere il tuo amore. Per lui o per lei è fondamentale sentire – non una volta, ma nel tempo – che può dire “no” senza che questo rovini la relazione. Che può essere in disaccordo senza essere abbandonato. Che può mostrarsi fragile senza essere sminuito. Che la sua voce pesa quanto la tua.

Attenzione, però, a un rischio sottile: approfittarsi della sua disponibilità senza volerlo. Il fatto che dica sempre sì non significa che lo desideri davvero. A volte dice sì perché ha paura di deludere. E l’amore cristiano non utilizza mai le paure dell’altro per stare comodo. Al contrario, si prende cura proprio di ciò che nell’altro è più vulnerabile.

Se vuoi davvero aiutarlo a crescere, non spingerlo con durezza. Rassicuralo. Sii fermo nella verità, ma tenero nel modo. Incoraggialo a parlare, anche quando temi di sentire cose scomode. Ringrazialo quando esprime un bisogno, non solo quando si adatta. Mostragli con i fatti che non deve guadagnarsi il tuo amore.

Il cammino del Pleaser non è smettere di essere buono, ma imparare a essere buono nella libertà. Come Cristo, che ha amato fino in fondo, ma senza perdere se stesso. E quando questo avviene, anche il vostro amore cambia volto: non è più un amore costruito per paura del conflitto, ma un amore fondato sulla verità. Quella verità che magari fa tremare all’inizio, ma che, alla fine, rende davvero liberi entrambi.

Antonio e Luisa

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Edith, la Lúthien di Tolkien: il cuore cristiano di un amore che sa di eterno

Il 29 novembre 1971 si spegne Edith Mary Tolkien (nata Bratt), moglie del Professore e figura fondamentale non solo nella biografia di Tolkien, ma anche nel cuore stesso della sua mitologia.

Nata a Gloucester il 21 gennaio 1889, Edith venne al mondo fuori dal matrimonio e assunse il cognome della madre, Frances. Questa ferita iniziale segnò profondamente la sua crescita, al punto che per tutta la vita non volle mai rivelare ai suoi figli l’identità del nonno paterno. A soli quattordici anni rimase orfana anche della madre e fu affidata a un convitto femminile vicino Evesham, dove ricevette un’educazione severa ma solida, e dove poté coltivare il suo talento per il pianoforte, la musica e il canto.

Fu proprio questo talento — elegante, delicato, quasi fiabesco — a colpire immediatamente il giovane Ronald Tolkien quando, anni dopo, si ritrovarono a vivere sotto lo stesso tetto nella pensione di Birmingham. Lui era di tre anni più giovane e ancora studente; lei, già segnata dagli urti della vita, sapeva ridere e suonare con una grazia che sembrava venire da un altro mondo.

Da quell’incontro nacque un affetto profondo, spontaneo, destinato però a scontrarsi con le regole e la fermezza del tutore di Tolkien, Padre Francis Morgan, che giudicò la relazione un pericolo per la carriera del ragazzo. Ronald accettò il divieto fino ai suoi ventun anni, vivendo in silenzio una distanza che pesava su entrambi. Edith arrivò persino a fidanzarsi con un altro uomo, ma quando Tolkien raggiunse la maggiore età e finalmente le scrisse, lei ruppe ogni esitazione. Lo scelse. Lo aspettava.

Si sposarono il 22 marzo 1916, poco prima che Tolkien partisse per il fronte della Grande Guerra. Da lì iniziò un cammino insieme durato più di cinquant’anni, attraversato da difficoltà economiche, malattie, traslochi continui, ma anche dall’arrivo dei quattro figli: John, Michael, Christopher e Priscilla. Edith rimase al fianco di Ronald con quella forza silenziosa che non chiede riconoscimenti: quando lui rischiava la vita in trincea, lei vegliava; quando lui costruiva lingue e mondi inesistenti, lei suonava per lui; quando la fama divenne un peso, lei gli offrì riparo nelle mura di casa.

È noto — e non è affatto un romanticismo postumo — che Edith fu l’ispirazione viva di Lúthien Tinúviel, la più bella fra le elfe. Tolkien stesso lo dichiarò più volte. I ricordi familiari la descrivono come una ragazza dai capelli scuri, dagli occhi luminosi e dalla voce melodiosa. Basta guardare la storia di Beren e Lúthien per riconoscere qualcosa del loro amore: la fedeltà nelle prove, la scelta sempre rinnovata, la bellezza che resiste alla sofferenza.

Negli anni della pensione si trasferirono a Bournemouth per vivere più serenamente. Là, il 29 novembre 1971, Edith morì a ottantadue anni. Tolkien ne fu devastato. Nelle lettere al figlio Christopher la chiamò “la mia Lúthien”, con un dolore che si sente respirare tra le righe. Due anni dopo morì anche lui: ora riposano insieme nel cimitero di Wolvercote. Sulla lapide, sotto il nome “Edith Mary Tolkien”, è inciso Lúthien. Sotto “John Ronald Reuel Tolkien”, Beren.

Non è solo poesia: è il riconoscimento definitivo che ciò che lui scrisse sull’amore fra mortale e immortale nacque prima di tutto dalla vita reale, da lei, da loro.

Ricordare il 29 novembre significa ricordare colei che fu non solo moglie, madre e compagna, ma la radice stessa di una delle storie più luminose della Terra di Mezzo. Perché senza Edith, forse Lúthien non avrebbe mai cantato. E senza Lúthien, nemmeno Tolkien.

Il matrimonio cristiano secondo Tolkien

Il matrimonio, nella visione cristiana che Tolkien trasmise ai suoi figli, non è mai un semplice slancio romantico: è una vocazione. Un atto di volontà che coinvolge tutta la persona, corpo e spirito, e che si alimenta attraverso castità, purezza, abnegazione, dono di sé e sacrificio gioioso. Per Tolkien, l’amore vero è una scelta quotidiana: “L’amore è un atto della volontà. Una volontà che decide di amare anche quando la passione non c’è.”

Questa volontà diventa abnegazione: un chinarsi verso l’altro, sostenendolo e proteggendolo. “Il vero amore implica l’abnegazione. Non è possesso, ma dono di sé.”

La purezza, tanto raccomandata ai figli, non è un moralismo ma un terreno fertile di fiducia reciproca: la castità custodisce l’altro come un tesoro, non come un oggetto. È disciplina del cuore, è rispetto. E non esiste amore senza sacrificio: “Non puoi avere la torta e mangiarla. Se vuoi una relazione profonda, devi scegliere di rinunciare a qualcosa per l’altro.”

Un sacrificio che, nella visione cristiana, diventa paradossalmente fonte di gioia, perché in esso si realizza il Vangelo: chi dona sé stesso trova una vita più piena, come il seme che muore porta più frutto. La passione va e viene: la fedeltà, invece, costruisce. “La fedeltà alla parola data è la radice dell’amore vero.”

E questo Tolkien lo comprese fino in fondo, quando scrisse in tarda età: “Ho amato tua madre per tutta la mia vita. Non sempre facilmente, ma sempre sinceramente.” Una frase che racchiude tutto: non l’amore perfetto, ma l’amore fedele; non l’amore senza croce, ma l’amore che nella croce trova la sua gioia.

Daniele Chierico

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Un’elemosina sui generis

Dai «Discorsi» di san Gregorio Nazianzeno, vescovo ​(Disc. 45, 9. 22. 28; PG 36, 634-635. 654. 658-659. 662) Il Verbo stesso di Dio, […] colui che è termine del Padre e sua Parola viene in aiuto alla sua propria immagine e si fa uomo per amore dell’uomo. Assume un corpo per salvare il corpo, e per amore della mia anima accetta di unirsi ad un’anima dotata di umana intelligenza. Così purifica colui al quale si è fatto simile. Ecco perché è divenuto uomo in tutto come noi, tranne che nel peccato. Fu concepito dalla Vergine, già santificata dallo Spirito Santo nell’anima e nel corpo per l’onore del suo Figlio e la gloria della verginità. Dio, in un certo senso, assumendo l’umanità, la completò, quando riunì nella sua persona due realtà distanti fra loro, cioè la natura umana e la natura divina. Questa conferì la divinità e quella la ricevette. Colui che dà ad altri la ricchezza si fa povero. Chiede in elemosina la mia natura umana perché io diventi ricco della sua natura divina. E colui che è la totalità si spoglia di sé fino all’annullamento. Si priva, infatti, anche se per breve tempo, della sua gloria, perché io partecipi della sua pienezza. Oh sovrabbondante ricchezza della divina bontà! Ma che cosa significa per noi questo grande mistero? Ecco: io ho ricevuto l’immagine di Dio, ma non l’ho saputa conservare intatta. Allora egli assume la mia condizione umana per salvare me, fatto a sua immagine, e per dare a me, mortale, la sua immortalità. […]

Questo è un estratto dall’Ufficio che la Chiesa ci offre oggi, anche se molto articolato e più lungo desideriamo soffermarci su un paio di espressioni che ci possano aiutare nel cammino matrimoniale.

Come ben sappiamo, il corpo ricopre un ruolo centrale nel cristianesimo, i riferimenti al corpo sono molteplici sia nelle analogie che si trovano all’interno della Bibbia sia nel Catechismo così come nella Tradizione, basti pensare che quando andiamo a ricevere l’Eucarestia il sacerdote ce la presenta con le parole: “Corpo di Cristo”; oppure basti pensare all’analogia della Chiesa come corpo mistico di Cristo, e così via fino alla recente e famosa “Teologia del corpo” di san Giovanni Paolo II.

Vogliamo solo fissare un paio di concetti sui quali offrire spunti di riflessione in questo inizio di Avvento: immagine di Dio ed elemosina di Dio.

San Gregorio Nazianzeno ci esorta così: Ma che cosa significa per noi questo grande mistero? Ecco: io ho ricevuto l’immagine di Dio, ma non l’ho saputa conservare intatta. Allora egli assume la mia condizione umana per salvare me, fatto a sua immagine, e per dare a me, mortale, la sua immortalità. Senza dilungarci troppo ci basti per ora ricordare che ognuno di noi è fatto ad immagine di Dio anche nel corpo, ma siccome la condizione maschile non è abbastanza per rendere l’immagine di Dio, ecco che il Creatore ha voluto donare all’umanità anche il femminile, come a dire che ognuno dei due sessi non basta a sè stesso per manifestare e significare la comunione che c’è in Dio, per raccontare l’amore che scorre all’interno della Trinità non è sufficiente un solo sesso, poiché il maschile necessita di un “alter” a cui donarsi ed il femminile necessita di un “alter” da accogliere, solo in questa meravigliosa differenza si scopre la comunione totale.

E allora il problema dove sta? Sta nella caducità della condizione umana post-peccato originale, sta nella ferita (concupiscenza) che ancora ci vuol piegare al peccato, quella ferita che ci fa tendere ad essere immagine di noi stessi, sciupando, deteriorando, ferendo, disonorando così la “imago Dei” che siamo noi, non solo noi come singole persone, ma ancor di più quella immagine di comunione di cui sopra, l’immagine più palpabile che abbiamo sotto gli occhi che è la coppia di sposi sacramentati.

Coraggio sposi, in questo Avvento riscopriamo il cammino per ritrovare quella “imago Dei” che siamo come sposi, Lui si è reso mortale per dare a noi, anche noi intesi come sposi, la Sua immortalità!

San Gregorio Nazianzeno spiega anche: Colui che dà ad altri la ricchezza si fa povero. Chiede in elemosina la mia natura umana perché io diventi ricco della sua natura divina. Cosa interessa al mondo un dio che si fa povero, addirittura un dio che chiede elemosina? Al mondo niente, ma agli sposi cristiani interessa eccome. Spesso sentiamo parlare di vari statagemmi per uscire dall’empasse di coppia, di vari suggerimenti dal taglio psico-relazionale che vogliono invitarci a cambiare stile di relazione, ci sono tanti libri cristiani e tanti bravi esperti nelle varie discipline che c’è solo l’imbarazzo della scelta, sono tutte occasioni di Grazia per far rinascere la coppia, ma se alla base non c’è l’elemosina di cui parla san Gregorio… campa cavallo che l’erba cresce.

Potranno migliorare i nostri rapporti di coppia, la nostra relazione potrà rifiorire, ma avrà poi il sapore di eternità? Per farlo bisogna che noi mettiamo in atto quei comportamenti di rinascita o di rinnovamento avendo nel cuore l’elemosina della propria umanità al Signore, altrimenti resta solo un bell’amore umano, solo orizzontale.

Quando per esempio il marito decide di smetterla di lamentarsi perché in casa non si fa tutto come e quando decide lui, e comincia a chiedere alla moglie cosa fare per renderla felice oggi… è proprio mettendo in atto questo cambiamento radicale che col cuore deve fare quella elemosina di cui sopra. Similmente quando la moglie decide per esempio di accogliere teneramente il marito quando rientra stressato dal lavoro invece che stargli alla larga e salutarlo come si saluta un collega, ecco che nel fare questo deve fare quella elemosina della propria umanità al Signore.

Cari sposi, questo Avvento è un’occasione di Grazie per imparare questa elemosina sui generis, che in realtà, a pensarci bene assomiglia più ad un investimento. Coraggio!

Giorgio e Valentina

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Le grandi acque non possono spegnere l’amore

Nei versetti di oggi leggiamo che l’amore vero attraversa le crisi come un mare aperto: soffre, cammina, si affida a Dio e diventa più forte insieme. Clicca qui per leggere quanto già pubblicato. La riflessione come sempre è tratta dal nostro libro Sposi sacerdoti dell’amore (Tau Editrice).

«Le grandi acque non possono spegnere l’amore,
né i fiumi travolgerlo» (Ct 8,7).

Questa frase del Cantico dei Cantici è una delle dichiarazioni più potenti sull’amore che la Scrittura ci consegna. Non è una frase romantica nel senso superficiale del termine. È una frase drammatica, realistica, incarnata nella vita. L’amata non sta dicendo allo sposo che andrà sempre tutto bene. Sta dicendo qualcosa di molto più vero: verranno le tempeste, verranno le acque, verranno i fiumi impetuosi… ma se l’amore è autentico, nulla potrà spegnerlo.

Qui l’amore smette di essere solo sentimento e diventa scelta, alleanza, fedeltà nella prova. Le “grandi acque” non sono un’immagine poetica astratta. Sono la sofferenza, le crisi, la fatica, le delusioni, le ferite, tutto ciò che prima o poi ogni coppia incontra nel cammino. Non esiste un amore vero che non abbia attraversato le sue acque.

Per il popolo ebraico l’immagine delle grandi acque è fortissima. Il mare era il luogo del caos, del pericolo, della morte. Evocava paura e smarrimento. Le inondazioni distruggono, travolgono, cancellano. Le acque non accarezzano: mettono alla prova. Eppure l’amata dice: neanche questo potrà spegnere l’amore.

Questo significa una cosa sola: l’amore vero non protegge dalla sofferenza, ma protegge nella sofferenza. Non ci evita il dolore, ma ci impedisce di essere schiacciati dal dolore. Quando l’amore è vissuto nel dono, nella fiducia, nella fedeltà reciproca e davanti a Dio, allora anche ciò che ferisce non ha l’ultima parola. Si può soffrire, si può piangere, si può anche vacillare… ma non si crolla dentro. Perché l’amore dà una forza che non viene solo da noi.

L’amore sponsale, in modo particolare, diventa una forza spirituale: dà pace anche nella tempesta, dà direzione quando tutto sembra confuso, dà senso quando la realtà sembra incomprensibile. Non elimina il male, ma lo attraversa.

E qui l’immagine delle grandi acque ci riporta inevitabilmente al Mar Rosso. Il popolo di Israele è davanti al mare. Dietro l’esercito del faraone. Davanti l’impossibile. Tornare indietro significherebbe tornare schiavi. Andare avanti significa attraversare le acque. Dio apre la via, ma la paura resta. Il popolo cammina con il cuore che batte forte, con il terrore negli occhi, con i passi pesanti. Non è stata una passeggiata. È stata una prova di fede.

Dio apre il mare, ma non cammina al posto loro. La fatica di attraversare la devono fare loro. E così è nella vita. Così è nel matrimonio. Così è nell’amore. Ci sono momenti in cui ti trovi davanti a una situazione che ti supera: una malattia, una crisi, una perdita, un tradimento, una ferita profonda, un fallimento che non avevi previsto. Ti senti piccolo. Ti senti senza forze. Vorresti tornare indietro. Vorresti evitare quella strada.

E invece a volte Dio non ci chiede di evitare il mare, ma di attraversarlo. Non perché la sofferenza sia desiderabile. La sofferenza non è mai un bene in sé. Ma perché a volte è inevitabile. E allora la vera libertà non è scegliere se soffrire oppure no, ma scegliere come soffrire. Con chi soffrire. Con quale cuore attraversare quella prova.

Dietro c’è l’Egitto: le sicurezze, le abitudini, le illusioni, le false protezioni, anche quelle dinamiche che sembrano rassicuranti ma in realtà ci tengono prigionieri. Davanti c’è l’ignoto. Ma è un ignoto abitato da Dio. «Il Signore combatteva per Israele» (Es 14,25). Non sempre lo vediamo, ma Lui è lì.

Ogni crisi nella vita di coppia è un Mar Rosso. Può diventare il luogo in cui l’amore si spegne, oppure il luogo in cui l’amore si purifica, si rafforza, si rende adulto. Può renderci più schiavi della paura oppure più liberi. Può farci chiudere oppure aprire a una fiducia più profonda. Nella prova emergono le vere radici dell’amore: se è fondato solo sul bisogno, si spezza; se è fondato sul dono, attraversa.

Il Cantico ci dice una cosa sconvolgente: se scegliamo di attraversare insieme le grandi acque, nulla potrà spegnere quell’amore. Non perché diventiamo invincibili, ma perché diventiamo affidati. Non perché diventiamo forti da soli, ma perché smettiamo di essere soli. Gesù stesso lo conferma: «Nella vostra perseveranza salverete la vostra vita» (Lc 21,19). Non nella fuga, non nell’evitamento, ma nel restare, nel camminare, nel fidarsi.

E qui la testimonianza di Chiara Corbella diventa una delle incarnazioni più luminose di questa Parola. Lei ha conosciuto davvero le grandi acque. Ha seppellito due figli. Ha attraversato il dolore più grande che una madre possa vivere. Eppure non si è lasciata travolgere. Ha lasciato il suo Egitto. Ha attraversato il suo mare. Parlando del piccolo Davide, scrive parole che sono un Vangelo vissuto:

«Davide ha abbattuto il nostro potere di genitori di decidere su di lui e per lui.
Ha abbattuto il nostro “diritto” a desiderare un figlio per noi, perché lui era solo per Dio.
Ha smascherato la fede magica di chi chiede a Dio solo ciò che corrisponde ai propri desideri.
Ha mostrato che Dio fa miracoli, ma non secondo le nostre logiche.
Ha abbattuto l’idea di chi cerca in Dio solo la salvezza del corpo e non quella dell’anima
».

Davide, vissuto pochi minuti, ha attraversato le grandi acque prima ancora di noi. E attraverso di lui Chiara e suo marito hanno imparato che l’amore non è possesso, non è pretesa, non è diritto. È offerta. Le grandi acque non hanno spento il loro amore. Lo hanno reso più nudo, più vero, più consegnato a Dio.

E allora questa Parola oggi parla a noi, alle nostre coppie, alle nostre famiglie. Verranno le acque. Verranno i momenti in cui ti sembrerà di non farcela. Verranno i giorni in cui pensi che l’amore sia finito. Ma se scegli di restare, se scegli di camminare, se scegli di affidarti, scoprirai che l’amore è più forte di quello che ti spaventa. «Forte come la morte è l’amore» (Ct 8,6). E se è più forte della morte, allora è più forte anche di tutte le acque che incontreremo lungo il cammino.

Antonio e Luisa

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Qual è la vostra mèta?

Cari sposi, con tanta gioia iniziamo l’Avvento, un tempo forte di grazia perché particolarmente ricco di occasioni spirituali attraverso cui il Signore Gesù offre a noi credenti aiuto, rinnovamento e crescita interiore. Sono solo tre settimane e mezzo e coincide con un periodo altrettanto intenso per svariati altri motivi: i preparativi del Natale con tutte le visite di familiari e parenti; la preoccupazione per le spese più elevate, tra cenoni e regali; poi, per chi ha figli piccoli, le inevitabili scadenze scolastiche quali recite, feste e colloqui con insegnanti; per non parlare dei pranzi o cene aziendali, il tutto in un contesto di giornate brevi, fredde e grigie, a cui si somma il carico emotivo di una festa che non può non far pensare alla nostra famiglia di origine, ai tempi passati e soprattutto a chi non c’è più.

Gesù però ha scelto apposta di nascere nei giorni più bui e oscuri dell’anno, perché Lui è la Luce che sconfigge ogni tenebra. Non dimentichiamo che nel fondo il motivo vero di tanto caos dicembrino è la nascita di Gesù e, se non possiamo fare a meno di correre come tutti attorno a noi, almeno sappiamo per Chi corriamo, corriamo con Gesù e non lo vogliamo dimenticare mai.

Abbiamo un estremo bisogno di ricordare che la storia che viviamo è già compiuta da Cristo. La sua Venuta 2000 anni fa ha cambiato tutto, anche se la percezione che molto probabilmente abbiamo, fortemente influenzata dal laicismo imperante, non ce lo fa assaporare e non ce ne rende consapevoli. La recente festa di Cristo Re ci ha introdotto all’Avvento, rimembrandoci che il mondo, con tutti i suoi avvenimenti, dalla grande cronaca fino a quel fatto che pare insignificante, è sottomesso a Cristo e può portare a Lui. Per questo la Chiesa ha istituito l’Avvento, come un’occasione di renderci consci che la nostra vita non è una giravolta impazzita ma ha una precisa direzione e una mèta finale: l’incontro personale con Cristo Salvatore.

La Liturgia odierna ci mette in guardia da una rischio reale e assai contagioso: la distrazione che prende forme simili nella superficialità o nell’alienazione. Lo fa utilizzando la vicenda di Noè, un patriarca dell’Antico Testamento, il quale riceve la missione di essere strumento di salvezza per gli uomini e gli animali, dinanzi alla minaccia di un imminente diluvio, ma tutti quelli che lo vedevano, non se ne sono curati affatto.

In tal senso, sono molto chiare le parole di Papa Francesco: la Parola di Dio fa risaltare il contrasto tra lo svolgersi normale delle cose, la routine quotidiana, e la venuta improvvisa del Signore. Dice Gesù: «Come nei giorni che precedettero il diluvio, mangiavano e bevevano, prendevano moglie e prendevano marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell’arca, e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e travolse tutti» (vv. 38-39): così dice Gesù. Sempre ci colpisce pensare alle ore che precedono una grande calamità: tutti sono tranquilli, fanno le cose solite senza rendersi conto che la loro vita sta per essere stravolta. Il Vangelo certamente non vuole farci paura, ma aprire il nostro orizzonte alla dimensione ulteriore, più grande, che da una parte relativizza le cose di ogni giorno ma al tempo stesso le rende preziose, decisive. La relazione con il Dio-che-viene-a-visitarci dà a ogni gesto, a ogni cosa una luce diversa, uno spessore, un valore simbolico (Angelus, 27 novembre 2016).

Chi vive alla giornata o affonda le sue certezze sulle cose che lo circondano corre il grave rischio di trovarsi sguarnito e disorientato quando queste vengano meno. Tutti ricorderemo lo shock della pandemia del Covid, quando, da un momento all’altro, il nostro modo di vivere è stato radicalmente modificato e chi aveva radici salde ha certamente sofferto ma ne è venuto fuori; purtroppo, chi non le aveva, paga ancora le conseguenze.

In cambio l’Avvento ci aiuta ad essere pronti perché ci ricorda qual è la destinazione della nostra vita e soprattutto ci dispone a realizzarla giorno dopo giorno, perché non sappiamo se saremo colti di sorpresa e avremo il tempo di prepararci.

È davvero impressionante la testimonianza di San Carlo Acutis che diceva: muoio felice perché non ho passato la mia vita a sprecare il tempo in cose che non piacciono a Dio. Pertanto, iniziare l’Avvento significa porsi in un profondo esame di coscienza su come stiamo nel rapporto con Cristo e con la sua Volontà. Tutto ciò non deve affatto incutere alcun timore perché, come affermava Papa Benedetto: la vigilanza cristiana non è paura del futuro, ma vivere il presente sotto il raggio della presenza di Cristo (J. Ratzinger, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme alla Risurrezione, cap. sul discorso escatologico).

Come vivono, quindi, due sposi il tempo di Avvento? Con lo stesso spirito della parabola evangelica delle vergini che attendono lo Sposo. L’Avvento ha un profondo significato nuziale perché ricorda a voi sposi che è Gesù la chiave di volta che interpreta il vostro amore.

Nel recente documento “Una caro” la Chiesa afferma una verità bellissima: L’Apostolo, evocando soprattutto il passo della Genesi in cui i due, l’uomo e la donna, formano una carne sola (cf. Gen 2,24), definisce l’intimità d’amore tra marito e moglie come un emblema luminoso della comunione di vita e di carità che intercorre tra Cristo e la Chiesa (cf. Ef 5,32). Attraverso questa pagina della Lettera agli Efesini, così fragrante nella sua umanità ma anche così densa nella sua qualità teologica, Paolo non si limita a proporre un modello di comportamento matrimoniale cristiano, ma indica nell’unione perfetta e unica tra Cristo e la Chiesa la sorgente originaria del matrimonio monogamico. Esso non è solo un’immagine di quella unione, ma la riproduce e incarna attraverso l’amore dei coniugi. È segno efficace ed espressivo della grazia e dell’amore che sostanzia l’unione tra Cristo e la Chiesa.

Questo per dire che la fonte, la provenienza dell’amore sponsale è Cristo stesso e così il Natale si può comprendere anche come la nascita vera e propria dell’Amore nuziale. Quindi cari sposi, buon cammino di Avvento, certi che Lui non vi farà mai mancare la sua compagnia.

ANTONIO E LUISA

Le parole di don Luca per noi sono state importanti per riflettere sul nostro rapporto. Il tempo di Avvento può diventare anche un tempo per ritrovare una visione autentica del matrimonio. Non si tratta dell’idea greca delle “due metà della mela”, secondo cui l’altro sarebbe ciò che ci completa perché da soli siamo mancanti. La prospettiva cristiana è diversa: ciascuno è una persona intera davanti a Dio. Nel matrimonio non ci si unisce per colmare una mancanza, ma per entrare in comunione. È una comunione che non si chiude su se stessa, ma apre entrambi gli sposi a Cristo, che è il vero Sposo di ciascuno. In questo cammino, l’amore umano diventa via verso l’Amore più grande. L’Avvento ci chiede di fare posto allo Sposo che sta per nascere.

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Beati siete voi, sposi pellegrini, se cercate la verità

BEATI SIETE VOI, SPOSI PELLEGRINI, SE CERCATE LA VERITÀ FACENDO DEL VOSTRO AMORE QUOTIDIANO UNA VIA E DELLA VOSTRA VITA UN PERCORSO NUZIALE CHE CONDUCA A CHI È LA VIA, LA VERITÀ E LA VITA

Carissimi sposi eccoci arrivati all’inizio dell’Avvento, questo tempo di attesa che ogni anno riviviamo in comunione con tutta la Chiesa. È molto significativa l’etimologia, che troviamo sul vocabolario, di attendere: deriva dal latino attĕndĕre «rivolger l’animo a» ed è composta da at «verso» e tĕndĕre «tendere».

Quando si attende qualcuno o qualcosa vuol dire che si è in ricerca, si cerca, si tende l’animo verso… e certamente, come cristiani, sappiamo Chi attendiamo. Ma ciò che, di anno in anno, ci fa riflettere è il seguente interrogativo: in che modo noi, sposi cristiani, aspettiamo Colui che ha detto di essere “ la Via, la Verità e la Vita (Gv 14,6)”? Ecco due possibili passi.

Innanzitutto, facendo del vostro amore quotidiano una via. Così come una via è costituita dal un lastricato di base ed è delineata lateralmente da edifici, così anche la nostra relazione costituisca il “pavimento” sul quale muoviamo i nostri passi e sia ben tracciata dal nostro pregare insieme con le parole del Salmo 121 (il canto dei pellegrini), che la liturgia indica per la prima domenica d’Avvento:

“ Quale gioia, quando ci dissero: «Andremo alla casa del Signore». E ora i nostri piedi si fermano alle tue porte, Gerusalemme! ”

E poi, facendo di tutta la vostra vita un percorso nuziale. Riconoscere che ogni giorno vissuto insieme nell’amore donato forma il percorso di santità di ogni coppia di sposi ci rende maggiormente consapevoli di dover attendere la Verità, fattasi carne nell’Emmanuele, con “mani innocenti e cuore pure” (Sal 23, liturgia della quarta domenica d’Avvento). Così la storia di ogni coppia diventa una liturgia quotidiana, fatta di gesti semplici, di fedeltà perseverata, di cadute rialzate insieme. È in questo cammino concreto, feriale, a volte faticoso ma sempre abitato da Dio, che l’attesa si trasforma in speranza viva.

Sicuramente ogni tempo d’attesa è un tempo di crescita personale ma anche di coppia e se ci saranno dei momenti un pò difficili fate risuonare dentro di voi le parole del bellissimo canto “Rorate coeli desuper”, che abbiam fatto nostre:  

Consolatevi, consolatevi, miei sposi: la vostra salvezza arriva presto! Perché vi consumate di tristezza, per il dolore che è tornato ad affliggervi? Non abbiate paura: vi salverò, io infatti solo il Signore Dio vostro, il Santo d’Israele, il Redentore della vostra famiglia.

Buon pellegrinaggio d’Avvento!

Daniela & Martino, Sposi Contemplativi dello Sposi

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Matrimonio e Intelligenza Affettiva: I Sei Adattamenti

Ogni coppia nasce dall’incontro di due storie. Non solo due caratteri, due educazioni, due modi di vedere il mondo, ma anche due bambini interiori che hanno imparato, molto presto, come si sopravvive all’amore, al rifiuto, alla paura, alla mancanza.

Nel matrimonio non entriamo mai a mani vuote: portiamo con noi le ferite, le risorse, i sogni… e anche quelle strategie profonde che da piccoli ci hanno permesso di sentire che, nonostante tutto, avevamo un posto nel cuore di qualcuno.

In Analisi Transazionale queste strategie si chiamano adattamenti di personalità. Non sono maschere cattive, né difetti da correggere. Sono forme di intelligenza affettiva che, da bambini, abbiamo costruito per ottenere amore, protezione, considerazione, o semplicemente per non soccombere al dolore. Il problema non è averle sviluppate. Il problema nasce quando, diventati adulti, continuiamo a usarle automaticamente, soprattutto nella relazione di coppia, dove invece siamo chiamati a incontrarci nell’Adulto, nella verità, e nella spontaneità del Bambino Libero.

Anche la fede ce lo ricorda: Dio non ci chiama a recitare un ruolo, ma a vivere “in spirito e verità”. Eppure, proprio nella relazione più intima — il matrimonio — spesso riemergono le vecchie logiche di sopravvivenza. Non perché siamo cattivi sposi, ma perché l’amore profondo risveglia proprio i luoghi in cui siamo stati più vulnerabili.

Gli adattamenti non sono etichette. Non definiscono chi siamo. Non servono per giudicare il partner. Sono piuttosto lenti di comprensione, strumenti per leggere ciò che accade dentro di noi quando siamo sotto stress, quando ci sentiamo minacciati, trascurati, non visti. Conoscerli significa imparare a guardarci con più misericordia e a guardarci, come coppia, con lo sguardo che Dio ha su di noi: uno sguardo che salva, non che condanna.

In questo cammino di riflessione attraverseremo i sei adattamenti principali dell’Analisi Transazionale, osservando come prendono forma dentro il matrimonio. Non per incasellarci, ma per crescere insieme. Prima, però, serve una mappa. Soprattutto daremo qualche strumento per comprendere come amare meglio l’altro.

Il primo è il Compiacente. È colui che ha imparato molto presto che l’amore si ottiene piacendo, adattandosi, mettendo l’altro al centro. Nel matrimonio è spesso la persona che ascolta, che intuisce i bisogni prima ancora che siano espressi, che si prende cura in silenzio. È una presenza calda, premurosa, profondamente evangelica nei gesti. Il suo rischio è perdersi. Dire sempre sì, evitare il conflitto, sopportare per non disturbare. Dietro c’è la paura di non essere amato per quello che è. Il messaggio interiore è: “Sii buono e verrai accolto”.

Poi c’è il Controllante. È chi ha imparato che per essere amato deve essere forte, impeccabile, irreprensibile. Porta nel matrimonio ordine, stabilità, senso del dovere, affidabilità. È la roccia. Ma spesso fatica a mostrarsi fragile. Critica, corregge, controlla. Perché dentro di sé vive con la convinzione che sbagliare significhi non essere degno. Sotto la corazza c’è un bambino che ha avuto paura di non essere all’altezza.

Il Super-Razionale è colui che ha imparato a sopravvivere spegnendo le emozioni. Quando il cuore era troppo esposto, si è rifugiato nella testa. Nel matrimonio è lucido, stabile, razionale. Sa affrontare le crisi senza perdersi. Ma può apparire distante, freddo, difficile da raggiungere emotivamente. Il suo linguaggio è quello dei fatti, non dei sentimenti. Dentro, spesso, c’è un bambino che ha imparato che sentire era pericoloso.

L’Iperadattato ha imparato che l’importante è non disturbare. Si adegua, si modella, diventa ciò che l’ambiente chiede. Nel matrimonio è collaborativo, flessibile, attento. Ma corre il rischio di annullarsi, di non sapere più cosa desidera davvero. Dice ciò che va bene, non ciò che è vero. Il suo cammino di guarigione passa dal recuperare la propria voce.

Il Ribelle è colui che, per non essere schiacciato, ha imparato a opporsi. Vive di autenticità, di creatività, di libertà. Nel matrimonio porta aria nuova, spontaneità, passione. Ma può diventare impulsivo, autosabotante, incapace di stare nella fatica della stabilità. Confondere la libertà con l’opposizione lo porta lontano dall’intimità vera.

Infine c’è la Vittima Ostile, che ha imparato a resistere in silenzio. Non attacca apertamente, ma trattiene, si chiude, accumula. Porta nel matrimonio profondità, sensibilità, una grande ricchezza emotiva. Ma se non impara a esprimere in modo sano la rabbia e il dolore, rischia di vivere di rancori sotterranei che avvelenano lentamente la relazione.

Nessuno di questi adattamenti è sbagliato. Ognuno racconta una storia. Ognuno ha salvato la vita emotiva di qualcuno. Ma nel matrimonio non siamo chiamati a sopravvivere: siamo chiamati ad amarci da adulti, nella libertà dei figli di Dio. Conoscere questi meccanismi non serve a puntarsi il dito contro, ma a scegliersi ogni giorno con maggiore consapevolezza, a trasformare l’automatismo in scelta, la paura in fiducia.

Nel prossimo articolo entreremo nella vita del primo adattamento: il Compiacente, il cuore che sa amare profondamente… ma che deve imparare, davanti a Dio, a non perdersi per amare.

Antonio e Luisa

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Mio padre non voleva che diventassi suora

È lecito che il volere dei genitori spinga, o al contrario, blocchi la vocazione dei figli? Fino a quando si può parlare di incoraggiamento, o al contrario, di impedimento? Quali sono le responsabilità, o al contrario, i limiti del contesto familiare?

Accogliere la vocazione religiosa di un figlio significa, per un genitore, ascoltare con cuore paziente quella voce interiore che chiede di essere libera nell’amare oltre se stessa. Significa accettare che il cammino del figlio possa chiamarlo a lasciare — non abbandonare — le attese proprie e quelle familiari, fidandosi che quel distacco sia fecondo. Significa comprendere che, come genitori, bisogna essere delle sentinelle che pregano, accompagnano, sostengono e offrono spazio perché la Grazia possa operare, senza forzature.

Quanta bellezza c’è nell’educare ad amare la libertà, nel non possedere, nel non costringere! Quanta verità c’è nel trasmettere ai figli che ogni vocazione è dono, non solo per se stessi, non solo per la famiglia ma per il mondo intero! Ecco la vera fecondità del matrimonio sacramento: la casa che diventa “piccola Chiesa”, luogo in cui si sperimenta che il più grande amore è dare spazio all’altro di essere se stesso dentro la chiamata di Dio.

La giornata di oggi – 27 novembre, festa della Medaglia Miracolosa – ci offre la base ideale per provare a riflettere su tutto ciò. Nel 1830, come oggi, Maria Santissima apparve ad una giovane suora, Caterina Labouré, donandole il prototipo della Medaglia che ha compiuto così tanti prodigi da far esclamare a San Massimiliano Kolbe: Se uno manifesterà anche questo piccolo omaggio soltanto all’Immacolata, cioè porterà la sua Medaglia, Lei non lo abbandonerà più e lo condurrà alla fede.  

La storia vocazionale di Caterina (1806–1876) è spesso raccontata come un percorso semplice verso la chiamata mistica della Medaglia Miracolosa. Se però ci si sofferma sul frammento della sua vita familiare — in particolare sulla resistenza del padre alla sua vocazione — emerge un nodo umano e spirituale di grande intensità: dovere filiale contro chiamata divina, obbedienza terrena contro obbedienza a Dio.

Nel 1815, a nove anni, rimase orfana di madre: quel lutto la costrinse a crescere in fretta e ad assumere responsabilità domestiche, occupandosi della casa e dei fratelli più piccoli. In una società rurale del primo Ottocento, per una ragazza le opzioni praticabili erano poche: matrimonio, lavoro domestico, o — per chi poteva accedervi — la vita religiosa. Il padre, Pierre Labouré, prese una posizione netta contro l’idea che la figlia lasciasse la casa per entrare in convento. Le fonti concordano sul punto che la sua resistenza fu motivata soprattutto da ragioni concrete: aveva bisogno di una figlia che mantenesse la casa e sostenesse la famiglia, e quindi cercò di scoraggiare quella scelta.

Per “mettere alla prova” la determinazione di Caterina (o per allontanarla dalla vocazione), la mandò a Parigi a lavorare nell’esercizio commerciale dei suoi fratelli.  Qui sta una delle chiavi spirituali della vicenda: Caterina non reagì con ribellione; la sua risposta fu il paziente perseverare e una tensione profonda verso l’obbedienza. Pur essendo ormai maggiorenne (nel 1830 aveva 24 anni), ella sentiva che la sua perfezione spirituale richiedeva — paradossalmente — anche la sottomissione al padre: voleva la sua benedizione.

Questo tratto non è un mero aneddoto morale ma la manifestazione di una formazione religiosa radicata nel senso del dovere e del rispetto filiale, che sarebbe poi diventato parte integrante della sua santità di «silenzio e servizio». Dopo anni di attesa e dopo che vari eventi mostrarono che la sua vocazione non era un capriccio passeggero, il padre acconsentì. Caterina entrò al Noviziato delle Figlie della Carità a Parigi, nella Casa Madre di Rue du Bac, nell’aprile del 1830. L’ingresso non fu una fuga ma un’espressione di libertà maturata: lei, pur avendo sopportato il rifiuto e la prova, scelse di chiedere la benedizione e la condivisione del padre — e ottenne infine il permesso.

La vicenda solleva una domanda teologica e morale sempre attuale: quando la chiamata – personale o di un figlio – sembra scontrarsi con responsabilità concrete verso la famiglia, quale criterio adottare? Questa vicenda suggerisce l’importanza del discernimento: Caterina non impose la sua scelta ma la portò avanti con determinazione e preghiera. Ma insegna anche il rispetto per i legami affettivi: il desiderio della benedizione paterna mostra che la vocazione non cancella i legami familiari; anzi, può arricchirli se vissuta con fede e nella fede.

L’iniziale “no” del padre di Caterina Labouré, dunque, non fu la fine della vocazione ma la sua scuola. Fu tramite il conflitto tra obbligo e grazia che la santa imparò a incarnare una vocazione fatta di pazienza, obbedienza e servizio nascosto. Da qui nasce la sua figura, così amata: una santa delle cose semplici, che riassume come la chiamata divina possa dispiegarsi attraverso le realtà più prossime e persino ostili dell’esistenza quotidiana.

Fabrizia Perrachon

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La forza del perdono

Qualche giorno fa ho fatto una testimonianza intitolata “La Forza del perdono”: riporto qui una sintesi di quello che ho detto, perché ritengo che il perdono all’interno della coppia sia indispensabile e da esercitare continuamente.

1. Quando il dolore ti toglie il respiro

Una delle ferite più profonde che si possono vivere in un matrimonio è quella del tradimento. Chi l’ha vissuto lo sa: è come se un gigante ti afferrasse con la sua mano e cominciasse a stritolarti, ti manca il respiro, ti fa male perfino il corpo. Ti svegli la mattina e non hai più gusto per niente, anche le cose belle ti sembrano sbiadite. È un terremoto dell’anima e non si esce da lì con due pacche sulle spalle. Il primo istinto è la rabbia, la voglia di vendicarsi, di dire a tutti quello che è successo, di far pagare all’altro il dolore che ti ha provocato.
Ma poi capisci che non serve, non guarisce, non ti ridà la pace. Io, personalmente, ho scoperto che l’unico modo per respirare di nuovo era pregare. Ma non la preghiera fatta di belle parole: era la preghiera dei sospiri, delle lacrime, dei silenzi. E piano piano, dentro quel buio, ho capito una cosa: non ero solo. Qualcuno quel dolore lo aveva già vissuto. E quel Qualcuno era Gesù.

2. La perla dell’ostrica

In uno dei nostri convegni abbiamo regalato un piccolo sacchetto con dei sassolini, una perla e una scritta: Vivi come l’ostrica: quando le entra dentro un granello di sabbia, non si abbatte, ma giorno dopo giorno trasforma quel dolore in una perla. Il dolore non si cancella. Non possiamo far finta che non sia successo. Però possiamo lasciare che Dio lo trasformi. Se oggi riesco a parlarne con serenità, è solo perché ho sperimentato che il Signore non butta via niente: neanche il dolore più grande. Anzi, proprio da lì può nascere qualcosa di nuovo. Ecco, io quella perla l’ho vista nascere, giorno dopo giorno, nel mio cuore. Credo che il perdono sia proprio questo: permettere a Dio di entrare nel nostro dolore, di lavorarci dentro, di farne qualcosa di nuovo. Da soli non ce la facciamo. Ma se il dolore lo viviamo con Gesù, in Gesù e per Gesù, allora sì, può diventare una perla.

3. Perdonare: un dono che libera noi stessi

La parola stessa lo dice: per-dono, cioè “dono per”. Ma spesso, il perdono non è un dono per chi ci ha feriti, a volte non gliene importa proprio niente e neanche lo vuole. È un dono che facciamo a noi stessi. Perché quando viviamo nel rancore, stiamo male noi, è come portarsi addosso una catena: ci pensi, ti arrabbi, ti viene in mente quella scena mille volte… e dentro non c’è pace. Quando invece decidi — anche solo inizi a desiderare — di perdonare, qualcosa cambia. Non succede tutto in un giorno, ma comincia un cammino di libertà che richiede tempo, mesi, a volte anni, ma ti libera dalle catene e ti dà la vera pace. E spesso, non è mai “una volta per tutte”: va rinnovato ogni giorno. Attenzione: perdonare non vuol dire far finta di niente, perdonare non è dimenticare.

Le ferite restano. Le cicatrici restano. Anche Gesù risorto aveva ancora i segni dei chiodi. Ma quel dolore non pesa più, perché lo hai consegnato a Lui. Chi perdona, in fondo, sceglie di guardare oltre l’errore per vedere la persona. E questo non può avvenire senza un lavoro profondo su sé stessi: riconoscere le proprie fragilità, i bisogni non ascoltati, le paure che si erano sedimentate da tempo. Il perdono, in questo senso, non cancella il passato ma lo redime. È come una cicatrice: non fa più male, ma resta a testimoniare che qualcosa è stato ferito e poi guarito. Bisogna però perdonare di cuore, non tenere pronte le munizioni da scagliare alla prima occasione possibile, o alla prima litigata.

4. Perdonare non è sottomettersi

Ci tengo a dirlo forte: perdonare non significa lasciarsi calpestare. Non significa dare all’altro il diritto di ferirci ancora. Non significa perdere la nostra dignità. Perdonare vuol dire dire: Io scelgo di non lasciarmi distruggere dal male che mi hai fatto. È un atto di forza, non di debolezza. È dire: Tu mi hai ferito, ma io non voglio che questa ferita decida la mia vita.

E questo vale anche per chi, come tanti, vive una separazione. Perdonare non vuol dire dover tornare insieme. Ma anche in quei casi, il perdono è l’unico modo per non rimanere prigionieri del passato.

5. Da perdonati a perdonatori

Nel Padre Nostro diciamo: Rimetti a noi i nostri debiti, come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori. Ecco il punto: non possiamo perdonare davvero se non ci sentiamo perdonati. Chi pensa di essere “a posto”, di non aver nulla da farsi perdonare, fa più fatica a perdonare gli altri, perché il perdono nasce dall’esperienza della misericordia.

Io stesso, se mi guardo dentro, vedo tante piccole infedeltà quotidiane: mancanze di pazienza, parole dette male, egoismi, piccoli tradimenti verso gli altri e verso Dio. Quando ci si sposa promettiamo di onorare e rispettare il coniuge tutti i giorni della vita…….tutti i giorni, capite? Quanti lo fanno davvero? Piccole infedeltà, anche se non si tradisce fisicamente con un’altra persona. Quando sento che Dio non mi giudica ma mi abbraccia, allora sì che riesco, piano piano, a perdonare anch’io.

6. Perdonare se stessi

C’è poi un’altra forma di perdono, forse la più difficile: perdonare noi stessi. Quante volte ci portiamo addosso sensi di colpa che non finiscono mai: Non sono stato capace – È colpa mia – Non merito il perdono. Ma se Dio ci perdona, chi siamo noi per non perdonarci? A volte serve il coraggio di dire: Signore, mi fido del tuo sguardo più del mio. Perché Dio non guarda i nostri fallimenti: guarda i nostri desideri di bene. Dio ci ama indipendentemente dai nostri meriti e proprio perché la gente non se lo merita, io perdono (è un atto di fede).

7. Gesù sulla croce

Vorrei chiudere con l’immagine più importante: quella di Gesù sulla croce. Ferito, tradito, deriso…avrebbe potuto sterminarci tutti anche senza dire niente. Eppure dice: Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno. Lì c’è la forza del perdono. Non è il perdono del “forte” che guarda dall’alto in basso il colpevole. È il perdono di chi ama fino in fondo, anche dentro il dolore. E allora forse il segreto è questo: accettare di essere amati, anche quando non lo meritiamo. Solo chi si sente amato davvero può perdonare. Solo chi ha ricevuto misericordia può donarla.

E quando questo succede, quando il cuore si apre, anche la ferita più profonda può diventare — come quella perla dell’ostrica — qualcosa di prezioso, che brilla e che testimonia la forza dell’amore. Non c’è matrimonio senza croce: lo diciamo spesso, ma raramente lo viviamo davvero. Tutti vogliamo un amore che ci faccia stare bene, ma il Vangelo ci propone un amore che ci faccia diventare santi. E la santità passa anche dal perdono.

Piccolo consiglio pratico per le coppie: alla sera, mettetevi uno di fronte all’altra, prendetevi le mani e, guardandovi dritto negli occhi, recitate insieme il Padre Nostro, soffermandovi sulle parole “come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori” .

Ettore Leandri (Presidente Fraternità Sposi per Sempre)

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Per amare bisogna sporcarsi le mani

Dalle «Omelie» attribuite a san Macario, vescovo (Om. 28; PG 34, 710-711) […] Una casa, non più abitata dal padrone, rimane chiusa e oscura, cadendo in abbandono; di conseguenza si riempie di polvere e di sporcizia. Nella stessa condizione è l’anima che rimane priva del suo Signore. Prima tutta luminosa della sua presenza e del giubilo degli angeli, poi si immerge nelle tenebre del peccato, di sentimenti iniqui e di ogni cattiveria. […] Guai alla terra priva del contadino che la lavori! Guai alla nave senza timoniere! Sbattuta dai marosi e travolta dalla tempesta, andrà in rovina. Guai all’anima che non ha in sè il vero timoniere, Cristo! Avvolta dalle tenebre di un mare agitato e sbattuta dalle onde degli affetti malsani, sconquassata dagli spiriti maligni come da un uragano invernale, andrà miseramente in rovina. […] Guai a quell’anima che non avrà Cristo in sè! Lasciata sola, comincerà ad essere terreno fertile di inclinazioni malsane e finirà per diventare una sentina di vizi. Il contadino, quando si accinge a lavorare la terra, sceglie gli strumenti più adatti e veste anche l’abito più acconcio al genere di lavoro. Così Cristo, re dei cieli e vero agricoltore, venendo verso l’umanità, devastata dal peccato, prese un corpo umano, e, portando la croce come strumento di lavoro, dissodò l’anima arida e incolta, ne strappò via le spine e i rovi degli spiriti malvagi, divelse il loglio del male e gettò al fuoco tutta la paglia dei peccati. La lavorò così col legno della croce e piantò in lei il giardino amenissimo dello Spirito. Esso produce ogni genere di frutti soavi e squisiti per Dio, che ne è il padrone. 

Abbiamo pubblicato alcune frasi del testo presente nell’Ufficio di domani, anche se ad una prima lettura superficiale potrebbe sembrare una sorta di spauracchio, in realtà vedremo che non è proprio così. Bisogna anche tener conto del fatto che l’omelia è scritta da un vescovo, e quindi è animato dallo zelo per le anime a lui affidate (Vescovo di Gerusalemme dal 313 al 334) per difenderle dall’eresia dell’arianesimo contro la quale lui combatte energicamente, avrà infatti un ruolo fondamentale nella prima stesura del Credo nel Concilio di Nicea del 325. Ecco quindi spiegato il motivo del tipo di linguaggio utilizzato da san Macario, un linguaggio che lungi dall’essere crudele, vuole invece sedurre l’anima alla sequela di Cristo adducendo vari esempi dalla vita ordinaria.

Con vari esempi che non hanno bisogno di spiegazione, san Macario ci sprona ad avere cura della nostra anima, per innalzare la nostra umanità a quella del Figlio di Dio, ma è verso la fine del testo che vogliamo concentrare la nostra riflessione.

Il contadino, quando si accinge a lavorare la terra, sceglie gli strumenti più adatti e veste anche l’abito più acconcio al genere di lavoro. Così Cristo, re dei cieli e vero agricoltore, venendo verso l’umanità, devastata dal peccato, prese un corpo umano, e, portando la croce come strumento di lavoro

Cari sposi, il Signore non ha avuto schifo a mescolarsi con gli umani. Lui che è adorato in Paradiso da tutte le schiere degli angeli e dei santi, a Lui si protrano, Lui che è il Signore dei Signori, il Re dei Re, Lui che è il padrone della Creazione, Lui che è Dio e poteva escogitare qualsiasi mezzo per salvarci dalla nostra condizione di peccato, non si è sdegnato di farsi uno di noi.

Gesù non ha paura di sporcarsi le mani per salvarci, è uno che non solo ci mette la faccia, ci mette tutto se stesso. Ma chi gliel’ha fatto fare? Poteva starsene tranquillo sulle sue “nuvolette” a guardare gli umani dall’alto, ed invece no.

I genitori che hanno cambiato tanti pannolini sanno cosa vuol dire sporcarsi le mani per “salvare” il proprio piccolo, ma lo sanno anche quelli che assistono i genitori anziani o i malati che non sono autosufficienti. Per amare bisogna sporcarsi le mani.

Cari sposi, quando avvertite che il vostro matrimonio ha bisogno di cure, quando vi accorgete che la vostra relazione sta marcendo, non abbiate paura di andare da Colui che non ha schifo di sporcarsi le mani con i nostri peccati, con le nostre fragilità, con le nostre debolezze.

Andiamo da Lui come fa il bimbo col pannolino sporco, senza vergogna, ma con la verità del nostro pannolino sporco, solo così potrà salvare la nostra relazione, il nostro matrimonio, solo guardando dentro il nostro pannolino. Coraggio sposi, questo ci insegna anche lo stile di amore che dobbiamo scambiarci. Per amare bisogna sporcarsi le mani.

Giorgio e Valentina

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Intimità e Sacralità: La Fiamma dell’Amore Coniugale

Nei versetti che approfondiamo con questo capitolo per la prima volta in tutto il Cantico viene citato il Signore. Come a mettere la Sua firma. Siamo infatti verso la fine. E si parla di passione, di vampe di fuoco, di fiamma. Perchè così è l’amore di Dio. Clicca qui per leggere quanto già pubblicato. La riflessione come sempre è tratta dal nostro libro Sposi sacerdoti dell’amore (Tau Editrice).

L’amata: Tenace come il regno dei morti è la passione: le sue vampe sono vampe di fuoco, una fiamma del Signore!

Queste parole arrivano quasi alla fine del Cantico dei Cantici. È come se, dopo un lungo cammino dentro il mistero dell’amore umano, la Scrittura decidesse di mostrare l’ultima verità: l’amore autentico non è tiepido, non è neutro, non è una via di mezzo. L’amore brucia. E brucia sul serio.

1. Amore e passione: non un sentimentalismo, ma una forza

Il testo non parla più semplicemente di “amore”, ma di “passione”. Alcuni esegeti rendono il termine con “gelosia ardente”, quasi a dire che l’amore vero non resta indifferente, non osserva da lontano. L’amore prende posizione. Sceglie. Rimane. La Bibbia non ha paura di usare immagini forti. Gesù stesso, nel libro dell’Apocalisse, dice:

«Poiché sei tiepido, e non sei né freddo né caldo,
sto per vomitarti dalla mia bocca.»
(Ap 3,16)

L’amore non tollera la tiepidezza. O scalda… o non è amore. E qui c’è una prima grande verità psicologica: il cuore umano è fatto per relazioni totali, non parziali. Chi ama “un po’” non ama: usa, controlla, trattiene. La persona, per essere viva, ha bisogno di un amore che coinvolga corpo, mente, emozioni, scelte, futuro. Per questo la Scrittura dice: «le sue vampe sono vampe di fuoco». Un fuoco che non distrugge, ma trasforma.

2. Il fuoco dello Spirito: la Trinità dentro l’amore umano

Non è un caso che la Bibbia associ l’amore al fuoco. Lo Spirito Santo, l’Amore tra il Padre e il Figlio, si manifesta come fiamma: «Apparvero loro lingue come di fuoco» (At 2,3). E quando Mosè incontra Dio, lo vede in un roveto che brucia senza consumarsi (Es 3,2). Il fuoco di Dio non distrugge: illumina, purifica, scalda, attira.

Allo stesso modo, l’amore tra gli sposi è chiamato a bruciare senza bruciare: a consumarsi senza consumare l’altro. Questo è un punto teologico meraviglioso: l’amore umano, quando è vissuto nella verità, partecipa dell’amore di Dio stesso.

Per questo, alla fine del Cantico, appare finalmente il nome di Dio: è come se il Signore mettesse la firma su tutto il poema. Tutto ciò che gli sposi si sono detti, cercati, scambiati — desiderio, abbracci, sguardi, baci, unione dei corpi — è via attraverso cui Dio stesso si rivela. Sì: l’amore umano parla di Dio.

3. Il matrimonio: un sacramento che passa attraverso i gesti quotidiani

Se guardiamo questo testo con uno sguardo psicologico, capiamo che l’amore non vive solo di emozioni. Vive di gesti concreti: cura, tenerezza, ascolto, verità, rispetto dei tempi dell’altro.

Quando un marito abbraccia sua moglie con dedizione, senza pretendere nulla, lì passa una scintilla del fuoco divino. Quando una moglie accoglie la vulnerabilità del marito senza giudicarlo, Dio si fa presente. Quando gli sposi vivono la loro intimità come dono, e non come ricerca di piacere egoistico, lì l’amore si fa fiamma che illumina tutto.

Ogni gesto di amore coniugale — psicologicamente sano (libero) e teologicamente vero — è gesto sacro. «Glorificate dunque Dio nel vostro corpo» (1Cor 6,20).Lo dice la Scrittura: non c’è niente di banale nel nostro corpo. Tutto è luogo di rivelazione.

4. L’intimità fisica: la fiamma che rende visibile Dio

Arriviamo a un punto spesso frainteso. Quanti dicono che la Chiesa è contraria al sesso! E quanti cristiani, al contrario, vivono l’unione fisica come una concessione, quasi un “male necessario” alla procreazione. In realtà, il Cantico e tutta la Bibbia raccontano l’opposto. L’unione fisica degli sposi è un sacramento vissuto nel corpo. È Eucaristia domestica. Non perché sia “santa” in modo puritano, ma perché è vera, concreta, carnale, ardente. Perché è un gesto di dono totale: io mi consegno a te, e tu a me.

Quando due sposi si uniscono con amore, libertà e verità, riattualizzano il sacramento del matrimonio. Rendono presente Dio nella loro carne. E psicologicamente? L’intimità vissuta così nutre i livelli più profondi della persona:

  • il bisogno di appartenenza,
  • il bisogno di intimità profonda
  • il bisogno di sicurezza,
  • il bisogno di fiducia,
  • il bisogno di essere visti e scelti.

È un gesto che genera vita anche quando non genera un bambino: genera vita morale, vita emotiva, vita spirituale, vita relazionale. È per questo che la Chiesa chiama gli sposi “ministri del sacramento”: sono loro che lo celebrano, nella vita reale, nella casa, nella carne.

5. L’amore come via di salvezza

Il Cantico dice: «È una fiamma del Signore». Non è metafora. È teologia pura. L’amore degli sposi non è solo per loro. È luce nel mondo. È annuncio. È profezia.

Quando una coppia vive il proprio amore in modo autentico — tra dialoghi, incomprensioni, perdono, tenerezza, ripartenze — sta mostrando al mondo come ama Dio.
Sta compiendo una missione. Sta diventando sacramento vivente. E allora comprendiamo una cosa enorme: l’amore umano, vissuto bene, porta in sé la forza della salvezza.

Il figlio che nasce da un amplesso d’amore è una creatura che viene da Dio attraverso gli sposi. Il matrimonio non è solo simbolo della Trinità: è collaborazione con la Trinità.

Il roveto di Mosè arde senza consumarsi. Così è l’amore quando è vissuto nella verità. Non distrugge. Non brucia l’altro. Non annulla la libertà. Non svuota la persona. È un amore che arde e fa ardere. È una fiamma del Signore dentro la carne umana.

Ogni sposo e ogni sposa è chiamato a custodire questa fiamma, a ravvivarla, a celebrarla, a viverla con rispetto, con coraggio, con verità. Perché in quella fiamma passa Dio. Perché in quella fiamma si rivela il cielo. Perché quella fiamma — l’amore — è la via nella quale Lui ha deciso di farsi trovare.

Antonio e Luisa

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Lasciati guidare

Cari sposi, oggi celebriamo la solennità di Cristo, Re dell’Universo, con un tono di speciale enfasi. Difatti, ricorre il primo centenario dell’introduzione di tale ricorrenza nel calendario liturgico e capire le ragioni per cui Papa Pio XI la volle istituire può gettare luce sul suo significato per noi oggi. Un secolo fa il mondo era appena uscito, estremamente ferito e sconvolto, dalla Grande Guerra (1914-1918) e si stava riprendendo dal punto di vista economico e culturale a gran velocità. Sembrava che l’umanità avesse voltato pagina, con il vento in poppa di progressi in tutti i campi, e i Roaring twenties promettevano un avvenire di serenità e prosperità.

Eppure, la Madonna a Fatima l’aveva chiaramente preannunciato a Lucia nel 1917: La guerra sta per finire, ma se non smetteranno di offendere Dio, nel regno di Pio XI ne comincerà un’altra peggiore e poi aggiunse: E ascolterete le Mie richieste, la Russia si convertirà e avrete pace; diversamente, diffonderà i suoi errori nel mondo, promuovendo guerre e persecuzioni alla Chiesa; i buoni saranno martirizzati, il Santo Padre dovrà soffrire molto, diverse nazioni saranno annientate.

In effetti, il XX secolo è stato di gran lunga più crudele, quanto a persecuzioni, contro la fede cristiana, addirittura rispetto ai primi tempi della Chiesa. E infatti, durante il pontificato di Pio XI si consolidarono politicamente le tre grandi ideologie (fascismo, nazismo e social-comunismo) colpevoli della maggior parte dei casi di violenza e morte per tantissimi credenti.

In sostanza, questo lo scenario in cui il Papa Ratti concepì l’Enciclica Quas Primas nel 1925 con cui voleva ribadire al mondo intero che è solo Cristo il vero re del mondo e che il suo regno non coincide con la regalità umana, piuttosto è un regno principalmente spirituale, universale, sociale e benefico.

Il Vangelo odierno ce lo mostra con una drammaticità commovente. Colui che aveva guarito decine e decine di storpi, ciechi, lebbrosi… colui che aveva riportato in vita i morti, colui che comandava alle onde del lago e ai venti impetuosi, dal cui corpo usciva una forza misteriosa che sanava tutti… ora non è che un povero condannato a morte, per nulla diverso dagli altri due ai suoi fianchi. Che fine hanno fatto la forza e la grandezza di Gesù, in quel povero corpo agonizzante? Lo stesso Gesù non risponde alle provocazioni sarcastiche di fare segni particolari come pure di scendere dalla croce.

Ma quel silenzio di Cristo è assolutamente docente e pregnante di significato, Lui ci sta volendo dire qualcosa che va oltre le parole. Unicamente con l’esempio e la testimonianza di vita, Gesù ci insegna che il vero re è colui che si dona fino a perdere sé stesso, non per possedere e dominare, ma per arricchire l’altro ed innalzarlo. Sotto la Croce “capiamo” le sue parole quando ci diceva di servire con gioia, di mettersi all’ultimo posto, di lavare i piedi, di donare gratuitamente, di perdonare i nemici… ecco i veri segni della regalità di Cristo!

Pensiamo alla storia del mondo ma anche e soprattutto alla nostra storia personale. Quando ci siamo voluti staccare da questo modo di essere di Gesù per seguire altre mentalità, modi di vivere, correnti di pensiero… quali frutti ne abbiamo tratto? La nostra vita forse ha dato frutti migliori e ci ha regalato la pace del cuore?

Guardiamo con grande gioia e gratitudine a Gesù che continua a guidarci con soavità, con bontà, con misericordia, con pazienza. La sua unica forza in quelle circostanze terribili è stato l’amore al Padre e a noi, che lo ha spinto a donarsi fino alla fine della sua vita.

Ecco perché voi sposi siete speciali interpreti della Sua Regalità. Dice Giovanni Paolo II nella Familiaris consortio che: il compito sociale e politico rientra in quella missione regale o di servizio, alla quale gli sposi cristiani partecipano in forza del sacramento del matrimonio, ricevendo ad un tempo un comandamento al quale non possono sottrarsi ed una grazia che li sostiene e li stimola (n. 47).

Voi sposi avete un dono speciale di imitare e seguire Gesù Sposo e Re, perché potete rendere il vostro servizio abituale quale segno del Suo amore, grazie al sacramento nuziale. Anche voi entrate nel Suo Regno quando unite a Lui l’amore con cui vi servite vicendevolmente, un amore che non passa per nulla inosservato ai vostri figli e a chi vi sta vicino. Come i cerchi d’onda di un sasso caduto nello stagno, quel modo di amarvi diventerà fecondo e contagioso, solo con la testimonianza e il silenzio.

È magnifico pensare che quanto avviene tra le vostre quattro mura, nella discrezione, possa diventare tanto fecondo e negli anni forgiare cuori solidi, menti sane e in definitiva persone integre che a loro volta semineranno il Bene. Cari sposi, dinanzi a Gesù che sta morendo in Croce, abbiate una fede coraggiosa di voler ribadire il vostro “sì” a Lui e di optare ancora una volta per seguire il Suo modo di amare.

ANTONIO E LUISA

Nel matrimonio ho capito davvero che la gioia non nasce dall’essere servito o dal sentirmi al centro delle attenzioni di mia moglie. La vera felicità sgorga quando scopro di essere utile, di rendere la vita dell’altro più lieve, più buona, più abitata dal bene. È in quel momento che capisco di essere speciale per qualcuno: non perché vengo messo su un piedistallo, ma perché contribuisco alla sua pace, alla sua crescita, alla sua serenità. Ed è lì che si rivela la nostra vera regalità: donare. E, donando, anche tutta la mia vita trova finalmente un senso: un senso d’amore.

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Dalla privacy individuale alla privacy sponsale

Viviamo in un tempo in cui la parola “privacy” è spesso associata a difesa, distanza, sospetto. Le domande che ci mettono a disagio — Perché non posso guardare il tuo telefono?, Hai bisogno davvero di uno spazio tutto tuo, anche se siamo sposati?, Se siamo una sola carne, perché esiste ancora un ‘mio’ e un ‘tuo’ — non sono nemici della relazione, ma inviti a riflettere su cosa significhi davvero vivere la trasparenza senza perdere la profondità.

Nel contesto di un matrimonio cristiano, si può dare significato nuovo a questa parola: può diventare uno spazio sacro, un dono reciproco, una forma di rispetto che custodisce l’intimità invece di dividerla. 

La privacy non è un bunker, ma una stanza interiore dove ciascuno di noi incontra Dio, si ascolta, si rigenera. Anche Gesù si ritirava in luoghi solitari per pregare. Quel silenzio personale non era fuga, ma nutrimento. Nel matrimonio, questa stanza non scompare: si apre. Non è una cassaforte contro l’altro, ma un giardino condiviso dove si entra con rispetto e si accoglie con fiducia. Intimità con sé stessi non è egoismo, ma capacità di riconoscere e coltivare la propria interiorità — pensieri, paure, desideri, ricordi, fragilità. È uno spazio che esiste anche dentro la coppia, e che non va negato, ma custodito insieme. 

C’è una differenza sottile ma decisiva tra intimità e segreto. La privacy diventa segreto quando ciò che si nasconde mina la fiducia, quando si costruisce una vita parallela fatta di messaggi cancellati, conti separati, relazioni non dichiarate. 

Intimità è uno spazio dove custodisco le mie fragilità e, poco a poco, le dono anche a te. Segreto è ciò che nascondo per paura, e che diventa muro. 

La regola d’oro è la trasparenza scelta come dono: non abolire il silenzio personale, ma renderlo noto e rispettato. Dire “ho bisogno di tempo per me”, spiegare cosa si sta facendo, pregare, scrivere, parlare con un amico, e concordare insieme i limiti che proteggono la sacralità di quello spazio senza generare sospetti. È il passaggio dalla privacy personale alla privacy condivisa, alla privacy di coppia, la privacy sponsale.

Nel matrimonio cristiano, pronunciamo una promessa: Io mi dono a te, tutto di me. Anche ciò che non capisco, anche ciò che mi fa paura. San Paolo scrive che il corpo non appartiene più a sé stesso, ma all’altro. Non si parla solo di fisicità, ma di tutta la vita che diventa reciproca. La privacy non scompare, si trasforma: non è più mia, non è più tua, diventa nostra. Essere “una sola carne” non significa sapere tutto dell’altro, ma vivere nella fiducia. Il controllo pretende accesso immediato e totale, genera paura. La fiducia sponsale si dona, si apre, si racconta, e lascia entrare l’altro per amore.

 Se oggi ti senti invaso, chiediti: l’altro vuole controllarti o conoscerti? 

E se ti senti escluso, chiediti: hai bussato con amore o hai preteso di entrare?

La privacy sponsale non è trasparenza forzata, ma libertà donata. È dire: Non ho nulla da nascondere, e ti lascio entrare, perché so che non mi farai del male. È liberante: non devo più recitare, non devo più difendere spazi personali per paura di perdermi. Nel matrimonio, la vera intimità non è sapere tutto, ma essere tutto, insieme. L’immagine che più ci viene in mente è quella della tenda in mezzo al deserto, una tenda con una fessura che si apre al soffiare del vento dello Spirito Santo, e fa entrare il coniuge in uno spazio intimo, dove posso sentirmi libero di essere me stesso, con i miei talenti e le mie brutture, sentirmi libero di sentirmi accolto così come sono, accolto in quanto amato:  non un muro quindi, ma uno spazio abitato insieme, dove Dio passa e si ferma ad abitare con noi. Questo è lo stile di Cristo: non nasconde, non impone, ma si dona. È lo stesso stile dell’amore sponsale.

Genesi dice che “erano nudi e non ne provavano vergogna”: quella nudità non è solo fisica, ma anche emotiva e spirituale. Significa vivere senza maschere, senza timore di essere giudicati. La privacy sponsale non è difendere un pezzo di me contro di te, ma lasciarti vedere così come sono, anche nelle mie vulnerabilità.

La fiducia non si impone, si costruisce. La libertà sponsale non dice “sei mio”, ma “mi dono a te” e non aspetto di essere perfetto per donarmi

Costruire la privacy di coppia richiede passi concreti: definire insieme ciò che è “nostro” — budget, social, relazioni significative — creare rituali di condivisione come lo sguardo serale, il tempo di preghiera, l’incontro settimanale. Stabilire confini chiari con il mondo esterno, concordare regole digitali senza imposizioni ma con intenzionalità. Se esiste qualcosa di molto personale, se ne parla e si spiega il perché. E quando la vita cambia — figli, lavoro, lutti — si ripensano insieme le regole.

Per aiutare il dialogo, ecco alcune domande da porvi come coppia: c’è qualcosa che considero “solo mio” e che potremmo trasformare in “nostro”? Quali sono i miei momenti di intimità personale di cui ho bisogno? Come te lo comunico? Ci sono aree digitali o relazioni che ti fanno sentire insicuro/a? Come posso rassicurarti? Qual è una pratica concreta che possiamo iniziare per custodire la nostra privacy di coppia? Se scoprissimo un segreto che ferisce la fiducia, qual è il primo passo che vogliamo fare insieme?

Non lasciate che la parola “privacy” diventi arma o alibi. Prendetela come un compito santo: custodire insieme. La privacy, se vissuta come “nostra”, libera dalle maschere e rende possibile una vita in cui non c’è bisogno di nascondere nulla.

Francesca e Dennis Luce Sponsale

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